Nell’ambito dei difficili rapporti tra Italia e Ticino-Svizzera, il fatto che la Camera di Commercio e Aiti si stiano muovendo verso le loro associazioni mantello a livello svizzero è un segnale positivo. Infatti, da locale questa tematica deve diventare nazionale; il fatto che la Svizzera sia iscritta in una black-list del Governo italiano, non mette in difficoltà solo le aziende ticinesi, ma tutte quelle svizzere che operano con l’Italia, e non sono poche.
Dagli ultimi dati ufficiali, il mercato elvetico è il secondo del commercio estero italiano, dietro alla sola Germania e prima di USA e Cina, così come la stessa Italia è il secondo fornitore delle aziende elvetiche ed è il terzo mercato d’esportazione svizzero. Una fitta rete di interessi commerciali, che vedono la Svizzera essere il sesto investitore in Italia e le aziende svizzere hanno oltre 70mila dipendenti in Italia.
Una situazione di stretti legami economici, industriali e commerciali, che dovrebbero portare il nostro Governo federale ad essere più fermo sulle posizioni e più cosciente del ruolo economico ricoperto dalla Svizzera in Italia. Ma così non è.
La Berna federale ha sinora ignorato un malessere ritenuto semplicisticamente “ticinese”, ma che invece è un primo stadio che avrebbe – come oggi è in realtà accaduto – attecchito in tutta la Svizzera. Finora il Ticino è rimasto da solo a confrontarsi con lo “Scudo fiscale”, i padroncini, i bilaterali non rispettati, le blacklist e gli ostruzionismi al libero commercio. Finalmente, anche a Nord delle Alpi, qualcuno ha aperto gli occhi e si accorge che la “questione ticinese” è di interesse e portata nazionale.
Oggi però il Ticino e la Svizzera devono confrontarsi anche con un attacco “istituzionale” a livello europeo, dove una europarlamentare varesina attacca la Svizzera (o meglio una campagna di un partito locale), mentre la sua indignazione dovrebbe essere rivolta al totale non rispetto degli accordi internazionali sottoscritti dall’Italia: Bilaterali con la Svizzera disattesi, libero accesso al mercato italiano assente, Dublino non applicato viste le migliaia di asilanti che arrivano ai nostri confini.
Nel gioco dei ruoli, la Berna federale ha ritenuto fino ad oggi di dover operare da sola, invero con scarsissimi risultati. Parole mal comprese in una lingua non propria, difficoltà di far sottoscrivere impegni precisi ai partner italiani, l’instabilità dei rapporti politici; queste possono essere scusanti all’immobilismo bernese, ma il fatto che il Ticino sia rimasto solo è una certezza.
Vorrei però lanciare un nuovo messaggio, ossia sul ruolo economico della Svizzera. In Ticino (marginalmente Grigioni e Vallese) ci sono oltre 45mila frontalieri impiegati. Dalla speciale classifica tenuta in Italia sui principali datori di lavoro, a livello pubblico Poste Italiane e Ferrovie di Stato sono tra i maggiori datori di lavoro; a livello privato, il primato va a FIAT con 80mila impiegati in Italia.
Il Ticino, con i suoi oltre 45mila frontalieri si trova al secondo posto dopo FIAT e poco prima delle aziende pubbliche di Finmeccanica, Enel ed Eni. Un dato rilevante e utile nella discussione con le autorità italiane. Infatti, la Svizzera con 70mila impiegati in Italia e 50mila frontalieri è il primo datore di lavoro privato in Italia.
Un punto d’appoggio in questo complicato rapporto di vicinato, che aldilà degli attacchi tremontiani, si dimostra di reciproco interesse. Ma finora, a farne le spese sono stati i Ticinesi.

Norman Gobbi, CN Lega dei Ticinesi