Nel mio cassetto c’è un’intervista, scritta per intero, perfetta, pronta, che non è mai stata pubblicata. La cosa mi tormenta, più o meno come un dente cariato, perché la giudico una delle mie migliori e perché nella circostanza ho mancato di coraggio.

Le cose sono andate all’incirca così. Nell’ottobre 2011 vengo a sapere, leggendo il giornale, che un noto avvocato della piazza si presenta come candidato alle Nazionali. Il partito è improvvisato, al limite della fantasia politica, le chance di elezione meno che nulle. Ma il personaggio è interessante per un’altra ragione. Sono stato ingaggiato per realizzare interviste elettorali? L’avvocato si è candidato? Benché io non lo conosca do persona, ottengo facilmente dalla sua segretaria un’appuntamento per le ore 15.

Quel giorno a Bellinzona
Arrivo puntuale allo studio, il giorno 18 di ottobre. Ci sono tre ragazze, l’avvocato non c’è. Arriva dopo un quarto d’ora “Mi scusi, dovevo farmi un panino”. Il colloquio, approfondito e cordiale, dura un’ora e un quarto. Fingiamo di parlare di politica, del partito inconsistente (opinione mia) e della Sinistra che era rivoluzionaria e oggi è sedentaria e burocratica. Molto rapidamente arriviamo al cuore dell’intervista: il caso giudiziario eclatante che ha avuto l’avvocato come protagonista. Scoppiato nel 2001 sotto le Twin Towers in fiamme, si è chiuso 9 anni dopo (che diamine, mica c’era fretta) con una condanna definitiva.

Colpevolista, come tutti, ma può sussistere un dubbio?
L’avvocato – uomo colto, intelligente, astuto – s’infervora mentre patrocina la sua causa, soprattutto la sua innocenza, di fronte a un giudice improvvisato che non ha alcun potere. La sentenza non cambierà. Un giudice, un intervistatore colpevolista, come probabilmente il 99% del pubblico. E tuttavia, sotto l’incalzare delle argomentazioni serrate, un piccolo dubbio può nascere anche in lui. Una remota eventualità di errore giudiziario?

Un comportamento inspiegabile
Questo però importa poco, non di questo volevo parlarvi. Dopo il colloquio ci salutiamo con cordialità. L’intervista – carta e penna, niente registratore – dev’essere scritta, il testo approvato dall’intervistato. Sono questioni delicate, giudiziarie, toccano persone importanti. Certe affermazioni sono taglienti. Dopo un giorno e mezzo sottopongo (per mail) la mia “opera”, desideroso di approvazione. Passa un giorno, ne passano due, tutto tace. Mi permetto di sollecitare. Silenzio. Una volta di più. Nulla.

Che fare?
L’intervista è rimasta nel cassetto della mia scrivania. Non l’ho pubblicata, non ho osato. Le elezioni d’autunno sono lontane. Il partito improvvisato ci sarà ancora? … o bastava che esistesse per un paio di mesi? Il candidato non si faceva illusioni, gli premeva (immagino) parlare di sé, delle ingiustizie subite e delle sue disavventure. Qualche piccolo spazio sui media l’ha caritatevolmente ottenuto. Chi ci ha rimesso di più sono io.

La mia intervista è qui, nel cassetto.