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Leggendo l’edizione dell’altro ieri del “Tages Anzeiger” ho avuto conferma di una pericolosa tendenza in atto nell’approccio del Governo e dell’Amministrazione federale alla politica migratoria. Secondo la testata zurighese, e da conferme ricevute dall’Ufficio federale della migrazione, il Consiglio federale ha intenzione di modificare le disposizioni che regolamentano il rilascio di visti e di permessi di soggiorno nel nostro Paese.

La modifica è definita minima e, toccando esclusivamente un’ordinanza, non prevede consultazioni e approvazioni da parte del Parlamento. In concreto si prevede di abolire l’obbligo del visto per i cittadini di trentatré Paesi extraeuropei (ad es. Albania, Bosnia-Erzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia, Stati Uniti, Canada e diversi Stati dell’America Latina), cittadini che, per un determinato periodo di tempo -al massimo tre mesi-, hanno intenzione di svolgere nel nostro Paese un’attività lavorativa o di seguire un corso di specializzazione.

Le persone interessate non dovranno più, come finora, ottenere un visto e un permesso di lavoro per venire in Svizzera a svolgere un’attività lucrativa; sarà infatti necessario esclusivamente un permesso di lavoro valido.
La misura è quindi di primo acchito esclusivamente amministrativa, volta a semplificare la procedura snellendo la burocrazia: si eliminano “inutili” e “costosi” ostacoli di natura burocratica. Ma si tratta veramente di ostacoli da eliminare, nell’attuale situazione?
Personalmente reputo la decisione alquanto avventata e inopportuna. Un approccio errato e pericoloso, che confonde pericolosamente strategia e burocrazia. Inseriamo questa misura nel contesto socioeconomico attuale della Svizzera, sia all’interno sia verso l’esterno.
Penso ai rapporti difficili con gli Stati confinanti e alla realtà socioeconomica vissuta nei Paesi soprattutto del sud e dell’est, che porta numerose persone ad accettare qualsiasi condizione pur di trovare un’attività lucrativa in Svizzera.
Il nostro Paese è attrattivo e offre condizioni uniche per i cittadini degli Stati citati. Questa prevista “semplificazione” porterà forse maggiore linearità e logica sulla carta, ma comporta un potenziale aumento dei lavoratori provenienti dall’estero.
Sburocratizzando il sistema e semplificando le pratiche, si mette ulteriore pressione sul mercato del lavoro interno, già saturo e sottoposto a una grande pressione.
La misura porterà inoltre ulteriori impegni (quasi mancassero) a chi controlla il mercato del lavoro, poiché occorrerà verificare che le persone impiegate non si fermino per anni in Svizzera.
Se da un’ottica esclusivamente amministrativa la riforma non fa una piega, da un punto di vista strategico rappresenta quindi un ulteriore indebolimento della posizione del nostro Paese.
Un tale approccio mi pare in questo momento totalmente illogico, controproducente e molto pericoloso in vista dei futuri sviluppi della politica migratoria elvetica. Non mi risulta che in questo momento il mercato del lavoro svizzero, ad eccezione di alcuni settori altamente specialistici e di nicchia, abbia problemi enormi nel reclutamento di manodopera all’estero.
Anzi, le cifre parlano da sé e mostrano un crescente afflusso di lavoratori provenienti da altri Paesi.

Marco Romano
Consigliere nazionale e segretario cantonale PPD Ticino