Lo scorso 7 agosto si è spento, a New York, Robert Hughes, scrittore e critico d’arte australiano, noto per il suo anticonformismo, allergico ai salotti radical-chic e alle correlate dominanti congreghe, sferzante nei confronti di certi mostri sacri entrati ormai nell’olimpo dell’arte e della cultura mondiale.

Di Hughes ho letto con grande interesse la sua opera forse più famosa, o perlomeno quella che lo ha fatto assurgere al ruolo di autore di culto, “La cultura del piagnisteo”, nella quale smonta e beffa con acume l’ipocrisia del politicamente corretto, ossia di quell’atteggiamento volto all’”esaltazione vittimistica delle minoranze”, all’apologia del multiculturalismo generalizzato e vacuo e all’affermazione delle nuove ortodossie culturali e sociali. Per usare i termini corretti, i paralitici diventano “non deambulanti”, i bassi di statura si trasformano in “verticalmente svantaggiati” e via di questo ameno passo. Hughes la chiama una Lourdes linguistica, dentro la quale nella nostra società vengono veicolati contenuti e comportamenti che plasmano e forgiano anche il vivere quotidiano.

Al di là di certe tortuose leziosità linguistiche, c’è poi l’uso a scopo meramente politico di parole, il cui significato viene strumentalizzato e snaturato a seconda della bisogna. Ecco allora che termini quali “fascista”, “razzista” e “xenofobo”, che evocano automaticamente un sentimento di denuncia, spesso tradiscono il loro significato originale, poiché utilizzati in maniera strumentale per combattere una determinata posizione ideologica e i loro rappresentanti politici, additati con un marchio d’infamia e quindi automaticamente delegittimati di fronte all’opinione pubblica. Alle nostre latitudini, per esempio, chi dice alcune verità sull’incidenza dei reati commessi da cittadini stranieri rischia di vedersi appioppare qualcuno degli sgradevoli appellativi citati poc’anzi: certe cose non si dicono, non è politicamente corretto!

Di esempi di questa cosiddetta correttezza, che si trasforma in ipocrisia diffusa e politicamente orientata, ce ne sono a iosa anche nel nostro piccolo Cantone. Cito dapprima un caso che conosco personalmente, ossia quello della richiesta, avanzata qualche anno fa da un gruppo di politici locali, di proiettare al Festival di Locarno (da sempre, si dice, forum sensibile alle libertà fondamentali) il cortometraggio di denuncia della sottomissione femminile nel mondo islamico, “Submission”, del regista olandese Theo Van Gogh. Per questo film, Van Gogh nel 2004 venne assassinato da un fondamentalista islamico, pagando con la vita – fatto unico in Europa negli ultimi decenni -una libertà per noi ovvia e irrinunciabile, quella d’espressione. Nessun intellettuale locale si levò a legittimare la richiesta (non dico a sostenere la proiezione del cortometraggio ) e la maggioranza del mondo politico cantonale snobbò semplicemente l’istanza. Quegli intellettuali e quei politici che, in occasioni diverse, si erano invece adoperati a gran voce a declamare, a giusta ragione, la libertà di espressione per le più disparate regioni del pianeta tacevano, girando la faccia dall’altra parte su una tragedia che in Olanda avrebbe poi cambiato il paradigma della politica di integrazione. Già, non era politicamente corretto, allora, difendere e onorare Van Gogh!

Pensando a quanto avvenuto in Ticino negli ultimi mesi, dopo la vittoria della Lega dei Ticinesi alle elezioni cantonali e il relativo cambiamento degli equilibri politici sul piano cantonale -un elemento centrale per comprendere anche certe dinamiche di potere-, abbiamo assistito ad una levata di scudi contro il cosiddetto imbarbarimento del dibattito politico, attraverso anche dei fulgidi esempi di atteggiamenti “politicamente corretti” (il ricorso a etica e morale in ambito politico) che hanno innescato una doppia morale, ormai conclamata, a fini esclusivamente politici.
Sì, perché le condanne e le indignazioni dei sottoscrittori dei reiterati appelli (quasi sempre gli stessi firmatari, della stessa area, genericamente di centro-sinistra), invocanti l’etica e la morale nel dibattito politico, hanno toccato l’apice soprattutto alla vigilia delle elezioni nazionali, mostrando chiaramente il vero obiettivo finale.

Ricordo, a mo’ di esempio, gli ex magistrati firmatari, lo scorso mese di ottobre,di un appello pubblico agli amministratori della giustizia e della sicurezza, chiedendo apertamente di non votare l’area politica che aveva vinto le elezioni cantonali. Sì, ancora una doppia morale, perché queste reazioni sono state assai selettive, nel senso che i Torquemada moralizzatori locali, con il sostegno di alcuni media molto interessati, sono scesi in campo, recentemente e anche in passato, a difesa dell’onorabilità di alcuni politici e non di altri, a seconda della loro collocazione politica e degli interessi partitici del momento. Alcuni di questi moralizzatori non hanno esitato inoltre a lanciare campagne mediatiche al fango, recentemente e in passato, contro i politici non graditi. Altro che etica e morale! Per non parlare di quanto visto negli ultimi mesi, con reazioni esagerate e fuori luogo in qualche caso e silenzi inquietanti in qualche altro.

Sia chiaro: il confronto politico, anche duro, non dovrebbe mai oltrepassare certi limiti. L’indignazione a targhe alterne e le pilotate levate di scudi, a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi, rientrano invece in una “guerra politica” che tende a strumentalizzare alcuni valori con scopi non certo nobili.

Iris Canonica
già deputata in Gran Consiglio