Alle ore 14.46 del 2 febbraio 1943, 80 anni fa, un apparecchio da ricognizione tedesco sorvolò ad alta quota la città e inviò per radio il messaggio: “Nessun segno di combattimenti a Stalingrado”. La sesta armata della Wehrmacht, al comando del generale (promosso in extremis feldmaresciallo) Paulus si era arresa ai russi, o per meglio dire era stata annientata. Di quasi 285.000 uomini non restavano che 91.000 prigionieri: feriti, congelati, affamati, inebetiti. Di essi 5000 soltanto avrebbero rivisto la patria.

Il 3 febbraio l’alto comando della Wehrmacht pubblicò uno straordinario comunicato:
“La battaglia di Stalingrado è terminata. Fedele al suo giuramento la sesta armata, condotta esemplarmente dal feldmaresciallo Paulus, è stata sopraffatta”. Hitler ordinò quattro giorni di lutto nazionale: tutti i cinema e i teatri rimasero chiusi. Lo storico Walter Goerlitz ha scritto: “Stalingrado fu una seconda Jena, certo la più grande disfatta che l’esercito tedesco abbia mai subito”.

Stalingrado sulla Volga, assieme a El Alamein in Africa settentrionale, segnò il tornante della guerra: da quel punto i tedeschi incominciarono a perdere. Resistettero ancora a lungo con immensa tenacia, ottennero ancora qualche successo locale, ma le loro sorti continuarono a declinare, sino alla catastrofe finale e alla morte per suicidio del loro folle Führer.