Egregio professor De Maria,

tempo di elezioni, tempo di conferme o cambiamenti (anche di squadra); ma anche, per quelli che non sono avvezzi a barcamenarsi nella memoria corta, tempo di ricordi e d’insegnamenti. Le propongo un caso che viene da lontano, dalla valle dell’Arno, nell’immediato secondo dopoguerra italiano, che vede coinvolto il mio nonno materno, operaio comunista durante il ventennio precedente, “irregolare” partigiano e decorato della prima guerra mondiale come bersagliere nel corpo degli “arditi”.

Perché? Perché la politica è lo specchio degli intendimenti umani più che delle ragioni o dei torti, e perché si può sbagliare pur avendo ragione e viceversa. Oggi, dove sembra che tutti abbiano un pezzetto di ragione e nessun torto, il fatto che segue le potrà sembrare obsoleto e ridondante come il mondo di quei tempi che abbiamo perso nella corsa al successo e al guadagno. Lo sanno bene tutti quelli che sono caduti quando credevano di essere arrivati in cima alla scala. Sull’argomento la penso (non rida) come il “nemico liberal democristiano” Benedetto Croce: “Non abbiamo bisogno di chissà quali grandi cose o chissà quali grandi uomini. Abbiamo solo bisogno di gente onesta”. E questo, se non sbaglio, non l’ho ancora letto in nessuna pubblicità elettorale. Ecco il brano:


Dopo che il nome del nonno fu stralciato dalla lista di Partito per la provincia di Firenze nelle elezioni del 1948, capitarono un paio di eventi di non facile interpretazione. Lui e la sua squadra di muratori ritrovarono quel lavoro che da qualche tempo non avevano più nonostante che nella rosa dei possibili committenti tutti appartenessero ad aree politiche diverse dalla loro. Uno fra questi era stato addirittura molto vicino al Podestà del capoluogo toscano (una specie di sindaco) fino all’otto settembre del 1943. La cosa suscitò discussioni fra i membri della squadra, con reiterate minacce di andarsene per conto suo da parte del “gappista”, un tipo smilzo, tutto nervi e alto un niente che non perdeva occasione per rammentare che non c’era carta, nel suo mazzo di briscola, su cui non avesse segnato il nome di un “fascio” impallinato. Il nonno lo convinse a darsi una calmata perché sarebbe stato un peccato regalare un incarico così grosso ad altre squadre composte magari da “culi gialli” in odore di Vaticano e nostalgici di Salò.

Il compromesso con il “gappista” fu che il nonno sarebbe andato a ritirare la paga anche per lui ogni fine del mese. Quando si seppe che l’incarico non era stato un caso o frutto della ritrovata unità nazionale, ma il prezzo che il Partito chiese (e ottenne) alla controparte politica a condizione che nelle sue liste non figurassero personaggi con un passato più militare che militante, la voce del nonno rimbombò attraverso tutte le stanze della direzione regionale comunista: “Se volete giocare, fatelo pure ma non a nome mio e dei miei compagni. La prossima volta che torno qui per cose di questo genere, strappo la tessera e ve la faccio mangiare”. Prime prove di “compromesso storico”? Difficile dirlo ma il fatto fece discutere parecchio in tutta la zona. Diversi anni più tardi, passeggiando con lui per le vie del paese, chiesi perché tanti, con la scusa del saluto, si fermassero volentieri a parlare del più e del meno. “Perché sono cattivo – rispose – e ai cattivi vogliono bene in tanti o nessuno ”. Altri tempi o altri uomini?

Carlo Curti, Lugano