Si conclude oggi il dialogo con la nostra “giovane” collaboratrice, la scrittrice luganese Sussy Errera. Che continuerà a scrivere per noi e per i nostri lettori. Presto andremo nuovamente a trovarla, nella sua bella casa di via Lavizzari, berremo il suo buon caffè e parleremo ancora a lungo della sua lunga e avventurosa vita.

 

Israele

Lei mi chiede qualcosa sulla drammatica situazione di Israele. La politica non è mai stata il mio forte, io guardo gli avvenimenti con gli occhi della massaia che contempla il disordine della propria casa, e se sposto lo sguardo al Vicino-Oriente, vedo solo la stessa confusione. Mi sono però chiesto spesso perché due popoli vicini, e in fondo anche stretti parenti, non possano trovare modo di accordarsi. Il mio pensiero è sempre lo stesso: se non ci si fossero messi di mezzo altri, con interessi ben precisi come la vendita d’armi, a quest’ora Israele e la Palestina avrebbero trovato un modus vivendi, ma temo che questo non avverrà mai, con troppi mestatori che tirano la coperta dalla propria parte. Quello che mi fa orrore è tutta la violenza che colpisce entrambe le parti, ma finché dai due lati ci saranno fanatici religiosi a soffiare sul fuoco, non mi sembra possibile intravedere una soluzione. Il fanatismo di qualsiasi radice, religioso, ideologico o altro, è a mio modesto parere, una delle più brutte bestie dell’umanità, né, mi sembra, abbia intenzione per ora di abbassare la testa.

La tomba del Faraone mi sbalordì

I miei studi si sono indirizzati, come base, su archeologia e antropologia. Le prime radici sono state poste nella mia infanzia, e ne ho un ricordo ben preciso. Avevo, credo, sei anni quando, un giorno, in casa dei miei nonni arrivò un mio zio, molto eccitato, sventolando una rivista “Le meraviglie del mondo”, la più vecchia rivista di archeologia in Italia. “Guardate qua, che cosa hanno trovato!” e aprì la rivista per mostrare un articolo e una fotografia che non scorderò mai. Si trattava della scoperta della tomba quasi intatta di Tutankamun. Rimasi tanto impressionata dal racconto che lo zio me ne fece che decisi lì per lì di diventare archeologa. A questo, più tardi, si aggiunsero libri e resoconti di altri luoghi, come Borobudur, Angkor Vat e altri siti celebri e dopo la licenza liceale e un anno perfettamente inutile di giurisprudenza a Milano, scopersi che a Parigi esisteva il mio ideale, l’Ecole du Louvre, dove m’iscrissi in archeologia asiatica. La mia speranza era di prepararmi per le spedizioni francesi in Indocina, purtroppo interrotte dalla guerra tanto in Europa che nel lontano Oriente.

Anni dopo m’interessai al confronto, veramente straordinario, tra civiltà asiatiche e altre precolombiane e mi trasferì a New York per continuare alla Columbia University i miei studi.

Oggi tutto questo è molto lontano ma l’interesse per queste discipline non è svanito, malgrado il mio problema degli occhi cerco di tenermi al corrente, come posso, sulle novità in quel dominio.

I “Mialoghi”, le conversazioni col gatto

Lei mi chiede da quanto tempo intrattengo un dialogo con il mio gatto immaginario. La cosa è cominciata ancora alla fine del secolo scorso, ma c’è stata una brusca interruzione quando purtroppo ho scoperto dalla sera alla mattina di non essere più in grado di leggere, e di conseguenza di scrivere. Mi ci è voluto un bel po’ di tempo per adattarmi all’idea, ma finalmente poi ho ritrovato il coraggio e soprattutto alcune splendide persone che da allora mi aiutano scrivendo sotto dettatura.

I “Mialoghi” incominciati come un fascicoletto smilzo, oggi hanno raggiunto ben 380 pagine.

Il mio interlocutore, come Lei sa, è un gatto un po’ anomalo. E’ un ottimo ascoltatore e interviene soltanto mostrando senso critico oppure interesse, cosa che deduco da un certo scintillio dei suoi occhi. Che non sia un gatto in carne e ossa Lei lo avrà già capito, ma anche così, tessuto a gobelin su di un cuscino, per me rappresenta l’interlocutore ideale e mi sento di confidarli tutte le stramberie e le osservazioni, i ricordi e molto altro ancora che mi passano per la testa.

Cucina e belles lettres

Già da moltissimo tempo i francesi hanno incominciato ad apprezzare la buona letteratura gastronomica, Brillat Savarin docet. Ricordo tra gli altri un delizioso volume di Paul Reboux, “Plats nouveaux” dove con molto spirito e piacevoli storielle anche piccanti, racconta di invenzioni gastronomiche, tutte accettabili e di buon gusto. Parlo degli anni Trenta, ma certo nel frattempo chi sa quanti scrittori di vaglia si saranno cimentati su questo argomento, che mi sembra guadagni popolarità ogni giorno di più, divenendo argomento di conversazione generale. Il nostro grande Artusi già cento anni fa spezzava una lancia in favore di un buon linguaggio gastronomico, da lui certo esercitato. Quanto a me, non vedo perché, parlando di padelle, ci si debba dimenticare del buon italiano.

Cent’anni

Con mio grande stupore sono ormai arrivata a soli cinque anni da questa data e non è un traguardo che mi sono prefissa. Ho sempre detto che finché fisico e soprattutto cervello non mi creano troppi problemi, in questo mondo ci sto ancora volentieri. Siccome però nessuno sa che cosa ci riserva il domani, evito di fare programmi precisi e mi rifaccio al mio amato Orazio: “Carpe diem! Ut melius quidquid erit pati!”

Sussy Errera