Il fil rouge che tutto unisce


Questo articolo, che parla del Ticino, arriva dall’Italia e sembra… dannatamente ben informato.


Mettere un limite alla produzione di collant non fa diminuire il numero di rapine. Così limitare il numero di frontalieri o non residenti non ricuce gli strappi nel tessuto impiegatizio del Cantone Ticino. Le casse del Cantone piangono: l’agognato risparmio di 180milioni da attuare entro il 2014 sembra essere un obiettivo utopico, oggi mancano all’appello un centinaio di milioni e il consuntivo di spesa sarà più severo di quanto auspicato in fase di preventivo.

Quali le cause? I frontalieri, i lavoratori non residenti? Sbagliato: sono gli effetti. Le cause sono da ricercare nella mancanza di lungimiranza dei governi che si sono susseguiti durante gli anni ‘90. In quel periodo il Ticino è stato eletto domicilio da multinazionali estere, anche e soprattutto in virtù di accordi fiscali di favore. Una mossa più che saggia, ma fine a se stessa, effettuata senza una pianificazione seria e soprattutto senza calcolatrice alla mano.

Un esempio su tutti: correva il 1997 e, nelle immediate vicinanze di Lugano, ha trovato base un’importante azienda italiana, famosa in tutto il mondo. Un altrettanto importante studio legale di Lugano ha avviato e gestito le trattative con le autorità ticinesi, fisco in primis. Risultato della mediazione e delle attività diplomatiche: 30milioni di imposte all’anno, a forfait. Non male, davvero non male, soldi benedetti. Ma…

Quell’azienda, nello stesso anno, ha realizzato utili pari a 300miliardi di lire, ovvero 250milioni di franchi al cambio dell’epoca. L’erario italiano avrebbe applicato un prelievo di 150miliardi di lire (125milioni di franchi), l’erario ticinese si è accontentato di 30milioni, osservati da quest’ottica un po’ meno benedetti. Della cinquantina di posti di lavoro offerti solo la metà circa era appannaggio di residenti, l’altra metà era costituita da dipendenti provenienti dalla casa madre, quindi dall’Italia. Arrivati con lo scopo di istruire i neo-assunti e ritornare alla base, sono rimasti anni, fino a quando l’azienda non ha tolto le tende.

Ciò che il Governo dell’epoca non ha preteso, in cambio di uno sconto fiscale di circa 100milioni di franchi, è un trattamento salariale equo. Stipendi al di sotto della media per tutti i residenti, remunerazioni eccezionali per i dipendenti italiani: al loro salario si aggiungevano tutta una serie di diarie e rimborsi spese. Per i primi mesi sono stati alloggiati in un albergo di standing superiore; poi l’azienda ha trovato loro un appartamento, accollandosi l’affitto, le spese accessorie e i premi della cassa malattia. Tutto ciò induce a pensare che l’impiego di lavoratori italiani non fosse una questione economica, quanto di comodità.

Il Governo ha quindi deciso di essere attrattivo, vestendo i panni di Ponzio Pilato per difendere le remunerazioni dei lavoratori. Eppure l’azienda italiana operava al di fuori di ogni contratto collettivo, come del resto molte altre aziende sul territorio, siano queste svizzere  oppure estere.

Il Codice delle Obbligazioni conferisce però all’Esecutivo il potere di intervenire, laddove un contratto collettivo non esiste, e fissare dei minimi salariali. É stato fatto a marzo, però tanto male da scatenare l’ironia dei frontalieri, raccolta da “Il Corriere di Como” e da scatenare l’ira dell’AITI che ha annunciato di volere contrastare l’iniziativa del Consiglio di Stato.

Una sana politica salariale, imposta magari come merce di scambio a tutte quelle aziende interessate ad accasarsi in Ticino per godere dei vantaggi fiscali che Bellinzona sa offrire, contribuisce a non asfissiare le casse cantonali. La domanda è un’altra: i governi degli anni ’90 hanno creato la falla, ma quelli successivi cosa hanno fatto per coprirla?

In un simile contesto lavoratori frontalieri e non residenti sono solo gli effetti. Le cause sono da ricercare altrove.

Giuditta Mosca