Un’altra Svizzera? Si può fare, sennò il globalismo economico sconfiggerà la pace del lavoro


Al maître à penser della destra risponde oggi il socialista Sergio Roic. Socialista puro e duro, giornalista, autore di romanzi, Roic è abile polemista e sa esporre con efficacia le “sue” ragioni. In politica attiva non ha avuto sinora molta fortuna (ma per il futuro… non si sa mai). Recentemente mi ha detto: “Per il successo, quaggiù, ci vogliono 3 cose: a) la famiglia (non ce l’ho); b) il favore del partito (non ce l’ho); c) la capacità di comunicare. Uno su tre, troppo poco!”

La tesi basilare di Roic (così mi sembra) è la seguente: la “globalizzazione” (parola che incomincia ad assumere un suono sinistro) ha rotto gli equilibri sui quali si reggeva il vincente “modello svizzero”. Difenderlo a oltranza e perpetuarlo in una sorta di oasi felice è un’illusione pericolosa. Discorso che può sembrare (ed entro certi limiti è) ragionevole. Ma ecco che la mano di Roic si avanza per porgere – ahimè – la soluzione socialista… Stop, non troppe parole di introduzione. Il lettore sia giudice! [fdm]


Tito Tettamanti, persona influente e uno dei ticinesi più ascoltati in ambito nazionale, “scende in campo” sul “Corriere del Ticino” (e ora su Ticinolive) esprimendo una serie di critiche alle proposte dei socialisti svizzeri, almeno quelli che lui in qualche modo ritiene rivendicativi e pugnaci, ovvero, in buona sostanza, il movimento dei giovani socialisti e le idee che vi ruotano attorno.

Di primo acchito si può notare che le critiche di Tettamanti, critiche rivolte a chi, secondo lui, vorrebbe cambiare radicalmente la Svizzera, un sistema socio-economico tutto sommato ben riuscito, sono quasi un imprimatur alla politica dei giovani socialisti svizzeri: combattivi, non compromissori, dalle idee chiare, anche se, naturalmente, queste non sono le sue idee.

Sono, quindi, d’accordo con Tettamanti su questo punto: qui e oggi, in Svizzera, sono proprio questi gli attori che si impegnano per un cambiamento significativo che, come cercherò di dimostrare, va nella direzione della salvezza della Svizzera piuttosto che in quella di un suo tramonto.

Ma veniamo al merito del discorso di Tettamanti. Egli rivendica il successo del modello svizzero e, da grande conservatore qual è, ne paventa i cambiamenti soprattutto dal punto di vista economico (ricerca di una maggiore redistribuzione a livello salariale rivendicata da parte della sinistra), ma anche da un punto di vista socio-culturale (liberalizzazione e attualizzazione di vari modelli educativi nelle scuole, ad esempio). Il pensiero di Tettamanti si esplicita verso la fine della sua analisi e può essere riassunto in questi termini: lasciate prosperare il modello attuale elvetico, non mettete il bastone fra le ruote a capitale e capitalisti, non frenate la “libertà” del “mercato”, ci penseranno poi loro, capitalisti e mercato, dopo aver prodotto ricchezza, ad aiutare chi sta peggio facendo funzionare la società.

Idee di questo tipo non sono nuove e vanno nella direzione di un paternalismo benevolo che, in cambio di una delega in bianco al laissez faire dell’economia e dei suoi fattori, si impegna, a volte concretamente altre volte solo a parole, ad elargire assistenza per le più deboli fasce sociali.

Queste idee e questa prassi, in alternanza a modelli di gestione della società di stampo socialdemocratico, hanno di fatto “governato” le evolute società occidentali degli ultimi decenni.

Ciò è stato possibile, e tutto sommato sopportabile da un punto di vista sociale, proprio a causa dell’alternanza al potere dei due modelli oppure, nel caso della Svizzera, della comunque tangibile influenza – in virtù della pace del lavoro elvetica – di elementi sindacali a protezione della classe lavoratrice.

Insomma, in Svizzera, ma anche nel resto dell’Europa occidentale, la prassi di un capitalismo molto competitivo e aggressivo aveva come contraltare (o come completamento: dipende dai punti di vista) una serie di ammortizzatori sociali, concordati a seguito di un confronto politico con le forze a difesa della popolazione e dei lavoratori.

Oggi, però, questo modello dell’alternanza e della mediazione fra parti contrapposte è stato spazzato via dalle potenti forze della globalismo economico (uso “globalismo economico” nell’accezione di Ulrich Beck; la globalizzazione delle culture e delle informazioni ne è forse la conseguenza ma è comunque un’altra cosa). Il globalismo economico è, in buona sostanza, quella “forza di gravità” economica che, in presenza e disponibilità di lavoro a basso costo a livello globale, permette al moderno capitalismo di attuare strategie fortemente concorrenziali quali l’outsourcing (dislocazione del lavoro) utilizzando lavoro sottopagato rispetto agli standard occidentali per ottenere il massimo profitto da riversare poi agli azionisti ecc., e tutto questo worldwide, e cioè in tutto il mondo. Detto in soldoni: appena un imprenditore si rende conto che gli “costa” meno produrre in Polonia o in Thailandia, cosa fa? Continua a produrre laddove costa di più, ovvero nell’ambito delle regolamentate società occidentali? Se appena può, proprio perché attratto dalla forza di gravità competitiva del globalismo economico, emigra, fugge, investe altrove per ottenere maggiore profitto con minori costi di produzione.

Questo nuovo volto del capitalismo globale non è un’astrazione o un argomento per economisti di sinistra, disegna la realtà di condizioni e logiche di mercato presenti anche da noi (è da vedere e riconsiderare in questo ambito la pericolosa deriva ticinese verso modelli di sviluppo a bassissimo valore aggiunto, che contemplano prestazioni lavorative retributivamente modeste).

Ecco, se la Svizzera, cosa che ritengo indubitabile, è oggi uno dei Paesi più coinvolti nelle logiche (sia in uscita che in entrata) dell’outsourcing e della competizione prodotta dal globalismo economico, quali e quante sono le possibilità che essa sappia resistere alla tentazione dei suoi attori concreti (quelli economici) in vista di un ulteriore giro di vite sociale, giro di vite ben avvertibile in regioni per certi versi periferiche del Paese, come il Ticino, dove a fronte di modelli di sviluppo a basso valore aggiunto non vengono tenute in giusta considerazione le rivendicazioni sociali della popolazione residente?

E allora le regolamentazioni sociali legate a una giusta redistribuzione a livello salariale acquistano un senso, e questo senso va appunto nella direzione della protezione degli stipendiati, dei lavoratori, dei residenti, che non hanno altri meccanismi, se non quelli delle leggi votate dal popolo, con cui contrapporsi alla fattiva depauperizzazione di un modello sociale, quello svizzero, finora discretamente funzionante, ma che rischia di essere messo pericolosamente in crisi da un capitalismo globale che non considera territori, bisogni individuali, tradizioni sociali, ma va in cerca del massimo profitto su ogni casella della grande scacchiera globale.

Ed è per questo che, pur nel rispetto delle posizioni di Tettamanti, legate alla tradizione del conservatorismo di stampo pro capitalista, ritengo che un Paese come la Svizzera può permettersi una socialità e strumenti di ammortizzazione sociale ben maggiori di quelli attuali sia per quel che riguarda il momento presente sia in prospettiva.

Infatti, un Paese come il nostro, che è vissuto e sopravvissuto a tensioni di ogni genere proprio in virtù di un compromesso come quello della pace del lavoro, oggi è confrontato con logiche di mercato, di produzione e di redistribuzione che non fanno più capo alla Svizzera come Paese territorialmente delimitato. Effettivamente, i mezzi e metodi di produzione che, in quanto a “libertà”, superano di gran lunga i sogni (o, chissà, gli incubi…) di un Carlo Marx, rischiano di non permetterci più – per citare uno slogan caro alla destra – di rimanere “liberi e svizzeri” e cioè liberi di scegliere il nostro destino.

Introdurre, quindi, delle regole in grado di limitare l’enorme forza di gravità del capitalismo globale che, strabico com’è, non si accorge minimamente della storia, dei fabbisogni, dell’organizzazione sociale e delle tradizioni migliori dei territori che sorvola, in cui investe e che, oggi e qui, usa unicamente per i propri fini (leggi massimizzazione dei profitti a vantaggio degli investitori “globali”), può essere visto come un atto d’amore e di responsabilità degli svizzeri socialmente impegnati nei confronti degli abitanti di questo Paese, affinché esso, la Svizzera, continui a prosperare in un ambito di pace sociale.

Sergio Roic