RACCONTO COME ENTRÒ NELLA MIA VITA E NE CAMBIÒ IL CORSO – E CHIEDO CHE LA CHIESA ORA RICONOSCA L’ERRORE GRAVE DELL’OSTRACISMO CON CUI TENTÒ (SENZA SUCCESSO) DI ISOLARLO E MORTIFICARLO

Articolo pubblicato sul Corriere della Sera del 18 aprile 2014
dal blog pietroichino.it

Nota. La figura di questo notevole studioso/politico mi è stata segnalata dall’avv. Tito Tettamanti, che lo segue con viva attenzione. Il sen. Ichino è una persona estremamente riservata, che vive sotto speciale protezione (a causa di minacce ricevute). Ho tentato di prendere contatto con lui ma sono riuscito “unicamente” a raggiungere il suo staff.

In questo articolo di straordinario interesse, sincero e vivace, la frase-cardine è quella che ho evidenziato in rosso. Noi, sono passati molti anni ma lo ricordo bene, i seguaci di don Milani (e di parecchi altri) li chiamavamo “catto-marxisti” e la “confessione” ichiniana odierna ci conforta e ci assicura della lucidità della nostra visione. Mai abbiamo pensato che la chiesa di Cristo e la chiesa di Marx dovessero abitare sotto le volte di uno stesso tempio. (fdm)


Andò così. Prima di entrare in seminario, ancora negli anni ’30, Lorenzo Milani era stato molto legato a una cugina di mia madre, Carla Sborgi. Negli anni ’50 mia madre lesse il suo libro Esperienze Pastorali, rimanendone fortemente colpita; e ne acquistò dall’editore molte copie per farlo conoscere ai suoi amici. L’editore informò di questo acquisto di dimensioni inconsuete l’autore. Così si ristabilì il rapporto tra di loro. Da allora i miei genitori offrirono a don Milani tutto l’appoggio che potevano. E lui incominciò ad avvalersene chiedendo ospitalità per una decina dei ragazzi della sua scuola che intendeva portare a Milano per far loro conoscere una grande città. La prima loro venuta a Milano fu nel 1958, quando io avevo nove anni. In casa nostra furono messi molti materassi per terra dappertutto. Io mi aggregai al gruppo nella visita alla fabbrica della Pirelli-Bicocca e in alcune altre. A Barbiana andai diverse volte, ma più tardi.

Ero profondamente affascinato dalla sua figura e divoravo le sue lunghe lettere ai miei genitori, poi la Lettera ai cappellani militari e la sua autodifesa nel processo che ne seguì.

Mi ricordo ancora come fosse ieri la volta in cui volle segnarmi come con un marchio a fuoco. Credo che fosse nel 1960; eravamo tutti – lui, i miei genitori, le mie sorelle e io – nel bel soggiorno della nostra casa di via Giotto; e lui, a bruciapelo, mi disse, facendo un gesto circolare per indicare tutto quel benessere: “per tutto questo non sei ancora in colpa; ma dai diciotto anni, se non restituisci tutto, incomincia a essere peccato”. Credo che fu questa invettiva (di cui si trova traccia anche in una lettera ai miei genitori pubblicata in una delle diverse raccolte) quella che decise il fatto che qualche tempo dopo io non andassi a lavorare nello studio di mio padre, ma al sindacato, per restare poi alla Cgil dieci anni filati. Ancora oggi, qualche volta mi chiedo perché non riesco mai a dire di no a chi mi chiede un incontro pubblico, una lezione, uno scritto, e molto raramente mi concedo una mezza giornata di vera vacanza; non ho ancora finito di restituire, e non finirò mai. Perché “Pierino” di Lettera a una professoressa ero allora, e “Pierino” sono rimasto tutta la vita; non ho mai cercato i privilegi, ma i privilegi hanno sempre cercato me, perché alla loro radice sta tutto quello che ho avuto in sorte nei miei primi vent’anni. Così, per quanto io cerchi di sdebitarmi, l’obbligo di restituzione derivante da quell’“avviso” di don Lorenzo di cinquanta anni fa non è mai estinto; anzi, aumenta in continuazione.

A cinquant’anni di distanza, non condivido più molto del comunismo integrale che ispirava la visione del mondo di don Lorenzo; alcune cose del suo insegnamento sul piano morale, però, mi sembra che non siano minimamente intaccate dal tempo. Una di queste è la teorizzazione del possesso del linguaggio come fonte di potere e della scuola come strumento per scardinare le disuguaglianze sociali. Un’altra è la sua considerazione sul limite etico del diritto di proprietà; diceva: “San Tommaso insegna che in extremis omnia sunt communia; è tutto questione di stabilire dov’è la soglia dell’extremum, dell’emergenza sociale”. Don Lorenzo ci insegnava a vedere sempre nella sofferenza umana, e soprattutto in quella originata dall’ingiustizia sociale, l’extremum che mette in discussione le nostre avarizie. E ci invitava a stabilire quel limite, sul piano dell’etica individuale, in modo molto più severo di quanto esso possa e debba essere stabilito sul piano della politica economica e quindi del diritto statuale.

L’esperienza di Barbiana resta oggi attualissima in questo: l’emergenza educativa che don Milani ha avvertito negli anni ’60, in una realtà di contadini e montanari poveri e isolati, va affrontata ora in realtà caratterizzate da altre gravi forme di povertà ed emarginazione – penso a tanti ragazzi di recente immigrazione, alle periferie urbane degradate, ma anche al vuoto di valori che troppo diffusamente per i giovani è riempito da alcol, droga, “sballo”. Queste realtà reclamano educatori appassionati e rigorosi, una scuola che sia all’altezza della sua funzione. In questa sfida, quella di don Lorenzo Milani è una testimonianza importante cui guardare per recuperare il senso del “fare scuola”, pur nella diversità delle situazioni e dei problemi.

Negli anni ’50 la Chiesa fiorentina diede l’ostracismo a Esperienze pastorali e punì don Milani confinandolo a Barbiana, dove non arrivava neppure l’elettricità. Oggi, più di mezzo secolo dopo, la stessa Chiesa lo riabilita. Ma lo fa con una formula molto reticente: “le circostanze sono mutate e pertanto quell’intervento non ha più ragione di sussistere”. Spero che da Papa Francesco, maestro di umiltà per la Chiesa, venga il riconoscimento esplicito che la condanna di allora fu un grave errore.

Pietro Ichino