Pantani

Giorni fa Bruno Cereghetti sul CdT ha messo i puntini sugli “i” al ciclismo attuale. Spazzato via il marziano Lance Armstrong, che tutti salvo l’UCI pensavano dopato, sono arrivati i cicloni Wiggins e poi Froome e il pregiudicato Contador, a  sollevar sospetti con inspiegabili uscite di scena, gli ultimi due tramite strane e ripetute cadute non colte dalle centinaia di camere che seguono il Tour. Hanno lasciato il campo ad un nuovo marziano, di nome Vincenzo, fino a ieri campione come tanti, adesso assurto al ruolo di dominatore incontrastato (dopo un soggiorno di cura a Fatima o forse a Lourdes? I luoghi di cura di questi improvvisi campioni sono circondati da comprensibile discrezione).

La storia del ciclismo è tutta una storia di doping, a partire dai caffè corretti cognac dell’inizio del secolo scorso per finire ai sofisticati rimedi attuali. Il fallimento di tutte le misure antidoping finora adottate è almeno in parte dovuto al fatto che la ricerca di nuove sostanze dopanti è come quella di nuove sostanze farmaceutiche; non conosce limiti di sorta. L’industria del doping non ha motivi per essere meno efficace di quella del settore farmacologico. La capacità di individuare con esami di laboratorio queste nuove sostanze  e tecniche dopanti (trasfusioni di propri eritrociti, per fare un esempio) arriva necessariamente  settimane o mesi o addirittura anni dopo la diffusione del loro uso. In questi lassi di tempo spuntano come funghi i nuovi campionissimi, per finir poi squalificati e venir finalmente rimessi in circolazione 1 o 2 anni dopo. Il lunedì dopo l’arrivo del Tour a Parigi, sullo stesso quotidiano Flavio Viglezio ha festeggiato Vincenzo Nibali come campionissimo di un ciclismo insospettabile. Ricordo un Pantani che nell’euforia artificiale si permise persino, in un Giro d’Italia stravinto, di stracciare tutti in una lunga tappa a cronometro. Nibali, contro il tempo, si è limitato al quarto posto. Non poteva o non voleva, intelligentemente, fare di più? Qualche dubbio rimane, che mi auguro infondato.

Ciò nonostante il ciclismo rimane uno sport popolarissimo, uno sciagurato che osasse ricordare che Pantani era dopato fin sopra il collo verrebbe subito lapidato dalla pubblica opinione prevalente. La sua tragica fine lo ha definitivamente assolto, con risvolti fortemente negativi per la punibilità dei suoi imitatori.

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Quel che ho visto in questi anni alla televisione e letto sui giornali mi ha fatto più volte pensare e dire che l’Italia è ormai uscita dal novero dei paesi civili. Delinquenza straripante, corruzione dilagante, burocrazia paralizzante, montagne di rifiuti incendiati in strada, discariche abusive di milioni di metri cubi, giustizia impazzita, con condanne a 7 anni di reclusione per un presunto o vero, non cambia niente, rapporto con una minorenne (per ancora pochi giorni al momento del “crimine”) quando la Consulta, tribunale costituzionale del Paese, già aveva deciso che per uno stupro di gruppo la detenzione dei colpevoli non è obbligatoria, sindacati che vorrebbero che la compagnia aerea nazionale vada in bancarotta pur di non concedere un esubero, e la lista potrebbe allungarsi a piacimento.

La lettura di un saggio di Emanuele Felice, “Perché il Sud è rimasto indietro”, edito dal “Mulino”, mi ha confortato in questo mio giudizio. Ne trascrivo, per informazione, le parole conclusive: “Lo Stato italiano si è talmente indebolito che alla fine è diventato incapace di qualunque spinta modernizzatrice. Anche le istituzioni economiche e politiche del Nord  hanno preso ad assomigliare sempre di più a quelle del Mezzogiorno. Se continua così, nei prossimi decenni il divario si potrebbe forse colmare, ma al ribasso, con il Nord che sempre di più si avvicina al Mezzogiorno. Per allora si sarà creato un altro divario, ancora più profondo, tra l’Italia e i Paesi avanzati”.

Se lo dice uno storico economico italiano, insegnante di Storia economica nell’Università Autonoma di Barcellona, possiamo ben dirlo anche noi.

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A mio modesto parere, uno dei più importanti e significativi avvenimenti di questi ultimi anni è stata la fondazione del Celac (Communidad de Estados LatinoAmericanos y Caribeños) nel dicembre 2011, su impulso del carismatico e popolare presidente del Venezuela Hugo Chavez, scomparso nel 2013. Membri dell’organizzazione sono 33 stati americani del Sud, del Centro e del Nord, con l’eccezione di USA e Canadà. Scopo? Sottrarsi nella misura del possibile all’influsso e più ancora alla pretesa egemonica degli USA, la lotta contro il colonialismo, latente ma non per questo scomparso, e, come altra priorità, la lotta alla fame e alla povertà. L’organizzazione intende, tramite azioni concordate, darsi un peso politico che i singoli stati, anche quelli annoverati tra i paesi emergenti (cosiddetti BRICS, Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) come appunto il Brasile, non possono certo avere.

Scopi tutti più che legittimi e nobilissimi. Ma con il paese di guerresche pretese egemoniche che devono affrontare, gravidi di rischi tali da far accapponare la pelle. Quel che sta accadendo in questi giorni all’Argentina, con un verdetto di un giudice americano che la mette praticamente in bancarotta, o al Venezuela, con le ribellioni popolari contro il successore di Chavez, Nicolas Maduro, e con il crollo della produzione industriale,  sono solo segnali premonitori di quel che sarà, per i 33 paesi membri del Celac, la lotta da affrontare. Sangue e sudore, per dirla con Churchill, con in più la fame generalizzata e i conseguenti disordini sociali.

Gianfranco Soldati