Terremoti, valanghe e anatemi

Il terremoto del 9 febbraio, scatenato dal risultato della votazione sul contenimento dell’immigrazione di massa ha avuto un primo effetto prevedibile: una valanga di critiche degli sconfitti o di coloro che, in Europa, ritenevano comunque quel voto una lesione di loro diritti acquisiti. Sin da prima della votazione era stata programmata una visita ufficiale a Berna di Joachim Gauck, presidente della Germania, probabilmente per dargli l’occasione di congratularsi con il popolo per la saggia scelta, creduta sicura, e felicitarsi con i sette saggi che ci governano.

È andata come sappiamo. Annullare la visita sarebbe stata un’offesa al popolino, e allora il presidente tedesco, che per la Svizzera nutre sentimenti quasi fraterni, si è limitato a cambiare il discorso da tenere in occasione del ricevimento ufficiale: la democrazia diretta ha i suoi limiti, e non sempre la maggioranza democratica ha ragione, ha constatato lapidario il presidente tedesco. Lo stesso preciso discorso ci è stato ammannito da Tim Guldimann*, ambasciatore svizzero a Berlino e anche incaricato speciale del presidente OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) per la mediazione nel ginepraio ucraino (presidente OCSE che è anche presidente della Confederazione, sotto le parvenze di Didier Burkhalter).

Un discorso ci è stato poi ribadito il 1° agosto dal presidente del Consiglio di Stato ticinese, sollevando una tempesta di reazioni, in un bicchiere d’acqua se si vuole, ma sicuramente giustificata dalla scelta malaugurata e incauta della tempistica. Chiedere appena 6 mesi dopo una votazione persa di rimettere tutto in gioco è segno infallibile di carenza di spirito democratico, piaccia o non piaccia agli “io sto con Bertoli”. Che la democrazia diretta possa avere dei limiti lo sappiamo tutti, e lo crediamo naturale, poiché si tratta pur sempre di regole volute da quell’essere imperfetto e poco perfettibile che è l’uomo. Ma sappiamo anche che la democrazia diretta è la miglior forma di governo che si sia riusciti ad immaginare e che le cosiddette “élites” che vorrebbero sostituirsi al popolo nelle decisioni ultime sono ancora più fallibili dei popoli. Le guerre sono sempre state decise dai detentori del potere, non dai popoli, che si sono limitati a fornire le vittime, mentre i “lor signori” stavano e stanno al riparo (armiamoci e partite, diceva Mussolini).

E per restare in Svizzera, il 6 dicembre 1992 i nostri dirigenti volevano tutti, tranne uno, dissolvere la nostra nazione nel coacervo europeo. I cittadini che non hanno votato come dovevano (cioè come volevano le nostre “élites”)** si sono visti subissare di rimbrotti, in particolare con l’epiteto di “populismo”, esternato con una tonalità spregiativa tale da far dubitare dell’integrità intellettuale e soprattutto etica dei censori. Gli intellettuali progressisti, tutti di sinistra (di progressisti tra i populisti di destra non ce ne sono, e intellettuali ancora meno), con i loro fratellastri minori (gli intellettualoidi) si sono distinti per l’acrimonia e la iattanza con la quale fulminano i loro anatemi sui vincitori del 9 febbraio (di strettissima misura, d’accordo, ma le regole della democrazia sono quel che sono, e se si vuol vivere in un sistema democratico bisogna rispettarne le regole), esattamente come avevano fatto dopo il 6 dicembre 1992. L’UE non era e non è disposta a discutere quello che per lei è un sacrosanto principio, quello della libera circolazione per tutti. E`però già disponibile a discuterne le misure di attuazione. Un modo come un altro di salvare la faccia, di Bruxelles, non la nostra.

Gianfranco Soldati

* che ho conosciuto (proprio all’interno di un gruppo di lavoro) nel novembre 2013 in occasione del grande meeting biennale della Zivilgesellschaft, l’associazione che l’avv. Tito Tettamanti ha presieduto sino al 2011

** tipico sarcasmo soldatiano