“Tutto il profitto del no profit!” (titolo sarcastico mio, per il quale, bonariamente, l’Avvocato mi rimprovererà)

TTA quanto pare il futuro della Clinica di Moncucco è assicurato nel migliore dei modi. La soluzione mantiene tanto gli equilibri attuali tra privato e pubblico quanto la sintonia d’intenti tra vecchi e nuovi proprietari. Il valido corpo medico che vi opera ha pure ragione di essere soddisfatto.

Durante il dibattito pubblico che ha accompagnato le trattative spesso si è parlato (a torto o ragione) di «no profit». Al proposito sarà bene chiarirci le idee e evitare confusioni. Pietro Martinelli, meno sospetto di me in materia, ha lucidamente commentato che il «no profit» non esclude né importanti flussi di denaro, né disponibilità di posizioni di potere e relativo esercizio.

Viviamo in un’epoca in cui il profitto è da molti (troppi) per ragioni ideologiche o per cattiva comprensione o confusione o ancora per scriteriati atteggiamenti di manager considerato qualche cosa di disdicevole, sospetto, poco sociale, al limite della legalità. Grosso errore. Innanzitutto il profitto è la rimunerazione dell’impegno imprenditoriale, come lo stipendio è quello di chi collabora quale impiegato senza (con ridotta) assunzione di rischio alla creazione del profitto. Si può legittimamente, nel naturale scontro di interessi, dibattere sulla ripartizione del profitto, ma senza profitto l’economia di mercato crolla, viene a mancare dell’indispensabile motore. Una ditta che fallisce licenzia e non può pagare i lavoratori, né i fornitori, lascia il consumatore senza prodotti, non paga le tasse arretrate e non può certo permettersi di sponsorizzare la cultura.

Taluni possono lecitamente auspicare regimi economici senza spazio effettivo per privati e quasi completamente controllati e diretti dallo Stato. Nel passato però hanno dato risultati disastrosi per Paesi e cittadini. Il profitto non è il risultato di rapine a mano armata e si deve realizzare nel rispetto di leggi e buoni costumi. È di conseguenza il legittimo indispensabile risultato della nostra economia di mercato (anche se oggi già molto condizionata). Detto questo, il«no profit» non ha per definizione un valore sociale superiore all’attività che porta alla realizzazione di guadagni. Importante per un giudizio potrà essere anche la migliore capacità gestionale, l’utilizzo più efficace dei fondi ricevuti da azionisti o donatori.

Semmai la caratteristica degna di lode e apprezzamento è la componente di volontariato, il fatto cioè che persone si mettano a disposizione di una causa e delle attività connesse senza venir remunerate. Ma non possiamo dimenticare che parliamo dell’eccezione e non della regola. Il numero di persone che lavora nel «no profit» negli USA ad esempio è una percentuale molto importante nel settore del terziario, ma si tratta normalmente di attività regolarmente remunerate.

La vera differenza è che l’importante flusso finanziario viene altrimenti diretto non essendovi azionisti od obbligazionisti da rimunerare e imposte da pagare. I fondi vengono raccolti principalmente tramite donazioni, più facilmente ottenibili in una società dove diffuso è il guadagno. L’opacità dei conti di molte no profit e delle ONG che gestiscono a livello mondiale miliardi non permette una esatta comparazione, le spese amministrative di qualche opera che chiamano di beneficienza talvolta danno adito a perplessità su chi siano i veri beneficiati.

Concludendo: ammirazione per chi si dedica al volontariato, ma non facciamo di ogni erba un fascio, anche le organizzazioni «no profit» perseguono interessi e gestiscono flussi finanziari e potere. Per tale motivo non vanno idealizzate e giudicate né meglio né peggio delle attività che perseguono profitto e pagano imposte. Meglio o peggio semmai sono le donne e gli uomini che vi operano.

Tito Tettamanti

(pubblicato nel CdT)