I salari minimi: soluzione reale o poetica utopia?
Risponde a Giuditta Mosca il professor Rico Maggi

Rico Maggi 360La questione dei salari minimi è stata già affrontata dal popolo svizzero in modo più o meno diretto. Ad inizio 2013 il Consiglio di Stato è intervenuto, grazie al potere conferitogli per l’occasione dal Codice delle Obbligazioni, introducendo un salario minimo in parte del settore secondario e in quelle aree del comparto delle vendite non coperte da un contratto collettivo di lavoro. All’epoca il direttore dell’Associazione Industrie Ticinesi (AITI) Stefano Modenini non ha nascosto che la misura avrebbe fatto per lo più gola ai frontalieri e che avrebbe spinto qualche azienda a guardare altrove per accasarsi meglio. Quel minimo di 3mila franchi svizzeri (all’epoca 2.400 euro circa) ha fatto anche balzare dalla sedia il Movimento per il Socialismo (MPS) che ha gridato al dumping di stato. A fine 2013 l’iniziativa popolare “1:12 Per salari equi” non ha avuto il successo sperato dai promotori; anche in questo caso le associazioni padronali hanno dipinto scenari funesti qualora il sì fosse prevalso, sottolineando che le politiche salariali le dettano il mercato e, se del caso, gli imprenditori.

A maggio del 2014 il popolo ha detto no al salario minimo di 4.000 franchi al mese. Il semplice paventare, da parte delle associazioni degli imprenditori, una crescita zero sia per l’economia sia per le assunzioni ha dato torto alla sinistra e ai Verdi che auspicavano un esito diverso.

Ma, allora, perché tornare ancora una volta sulla questione salari minimi se il popolo si è già espresso non molto tempo fa? Sono una panacea, una cura mirata, un palliativo o un farmaco con effetti collaterali da non sottovalutare? Lo abbiamo chiesto al Professor Rico Maggi, direttore dell’Istituto di ricerche economiche dell’Università della Svizzera italiana. La domanda che abbiamo posto al Professor Maggi è una sola: “i salari minimi sono applicabili oppure è solo utopica poesia?”

«Le iniziative politiche dei salari minimi generalmente piacciono poco agli economisti perché, nel lungo periodo, le imprese cercheranno di razionalizzare e delocalizzare la produzione. Nel breve periodo, soprattutto in momenti come quello attuale, mettono comunque a rischio posti di lavoro. Alzare il livello minimo delle retribuzioni fa lievitare il costo del lavoro, non la produttività. In Svizzera i sindacati prevengono gli abusi con i Contratti Collettivi di Lavoro e, in un momento in cui la parità tra Franco e Euro genera dissidi sulle remunerazioni, è facile per i partiti sventolare la questione dei salari minimi che invece non porta nessun beneficio e che, al contrario, rischia di isolare ancora di più chi fa fatica a rientrare nel mercato del lavoro. In sostanza quello del salario minimo è uno slogan elettorale che può solo fare danni. Il Ticino deve attirare aziende con una produttività tale da potere riconoscere salari più alti. C’è da chiedersi perché queste aziende non arrivano ma, anche in questo caso, sarebbe necessario trovare manodopera al di fuori dal Cantone perché in Ticino non ce n’è abbastanza. Non possiamo credere che introdurre i salari minimi contribuisca ad attivare nuove attività sul territorio».

Giuditta Mosca