L’unico commento che si possa apporre a questo vigoroso articolo è il seguente: il Comunismo è crollato (?!), i Comunisti*** certamente NO!

*** Qui sta, in un’accezione più ampia, per “i Sinistri” (fdm)

Vivaldi-Forti 1x2 aQuando il telegiornale della sera del 25 dicembre 1991 trasmise l’ammainabandiera con la falce e il martello dal pennone del Cremlino, un’ondata di entusiasmo pervase tutti coloro che avevano combattuto il mostro del comunismo, che ne avevano sofferto le prevaricazioni e temuto l’avvento al potere. La vita degli italiani, dalla fine della guerra in poi, era stata condizionata e minacciata dal possibile avverarsi di quell’ipotesi, che avrebbe significato per molti il crollo di ogni speranza e l’inizio di un incubo. I pericoli si susseguivano a ritmo costante. Le elezioni del 1948, del 1963 e del 1976, il centro-sinistra prima e il compromesso storico dopo, rappresentavano tappe di una lenta ma inarrestabile marcia verso un unico traguardo: la sovietizzazione del nostro Paese.

Le stesse decisioni personali, professionali e familiari risentivano di quel timore, anche se spesso a livello inconscio. Si temeva per l’avvenire della propria azienda, della propria professione, del futuro dei figli e della stessa proprietà della casa in cui abitavamo. La vita trascorreva in apparenza serena, ma su ogni conquista , su ogni gioia, su ogni successo, gravava quella spada di Damocle: quanto durerà? E se vengono i comunisti? Quel pomeriggio di 23 anni or sono l’incubo sembrò dissolversi improvvisamente e miracolosamente : la testa del serpente era stata schiacciata, il rettile non aveva alcuna possibilità di sopravvivere. Era soltanto questione di tempo, ma anche l’Italia , che pure vantava il triste primato del Partito Comunista più forte del mondo, avrebbe abbandonato quella spaventosa ideologia fondata sull’invidia, sulla violenza e sull’odio. Con questa speranza, anzi con questa certezza, ci coricammo lieti la sera di Natale.

Non tenevamo conto, tuttavia, che la base popolare del PCI non era affatto cambiata. Per chi era stato allevato nell’odio di classe, e fin da piccolo aveva nutrito sentimenti di rivalsa e vendetta, la perestroika di Gorbaciov , la rivoluzione di Eltsin e la messa fuori legge dello stesso partito in Russia, non significavano assolutamente nulla. Il loro orizzonte, ben lungi dall’abbracciare dimensioni storiche e planetarie, si limitava ancora, come se niente fosse accaduto, al comune, alla provincia, al massimo alla regione. La loro rabbia traeva alimento non dagli scenari internazionali che mutavano a vista d’occhio, ma dall’invidia verso il signorotto locale che abitava la casa più bella, il professionista e l’imprenditore colpevoli di avere avuto successo, perfino il nobile spiantato che non azzeccava il desinare con la cena, ma che vantava un passato illustre che essi non avrebbero mai potuto togliergli con la violenza né comprargli col denaro. Questo è l’humus culturale su cui ha sempre prosperato il comunismo italiano.

I dirigenti di alto livello, che pur si erano formati una idea precisa di quel che stava avvenendo, lo sapevano perfettamente, e fecero leva proprio su questi sentimenti per non scomparire di scena. Ripulirono, è vero, l’immagine pubblica del partito cambiandogli più volte nome e azzardando qualche timida autocritica, come nel congresso della Bolognina, ma mentre questo succedeva al vertice, nelle sezioni periferiche, in particolare delle regioni rosse, tali mutamenti diventavano spesso oggetto di battute e risate, mentre le assemblee si chiudevano, come sempre, col canto dell’Internazionale e di Bandiera rossa. Purtroppo, gran parte della borghesia italiana, dedita al malaffare e sprofondata nelle mollezze, nei vizi e nella droga, trovò molto comodo crederci, illudendosi di avere esorcizzato definitivamente le proprie paure, in ciò incoraggiata e sostenuta da un’opinione pubblica internazionale, soprattutto americana, che considerava il crollo del Muro di Berlino alla stregua della vittoria in una guerra mondiale.

I comunisti, bisogna ammetterlo, hanno sempre saputo buttarsi alle spalle tutte le sconfitte, anche quelle che avrebbero cancellato qualsiasi altro movimento, traendo vantaggio dalla debolezza e dal panciafichismo dei propri avversari. In tal modo, fin dal 20 aprile 1948, giorno successivo alla disfatta loro inferta da De Gasperi, cominciarono a risalire la china, tanto che solamente dodici anni più tardi riuscirono, con un moto di piazza bene orchestrato e abbondantemente sponsorizzato, a rovesciare il legittimo governo della Repubblica, imponendo alla DC l’alleanza con i socialisti di Nenni, Lombardi e Di Martino e poi, nel decennio successivo, entrando essi stessi nella maggioranza. Sarebbero di lì a poco approdati anche al governo, se l’assassinio di Moro non lo avesse impedito. Contemporaneamente sono sempre riusciti a superare indenni i grandi scandali della storia nazionale, che invece, guarda caso, hanno travolto chiunque , in qualsiasi modo, tentasse di sbarrare loro la strada.

La prima vittima illustre di tale strategia fu Fernando Tambroni nel 1960, a cui fecero seguito Antonio Segni nel 1964, Amintore Fanfani , il quale dovette rinunciare alla candidatura al Quirinale nel dicembre dello stesso anno, perché gli ambienti progressisti del salotti buoni e della stessa Chiesa cattolica si erano persuasi che intendesse ricacciare i marxisti all’opposizione, senza parlare di Bettino Craxi, il leader più odiato dal PCI, avendogli sbarrato l’accesso al potere per un intero decennio. Non fosse che per questo, la figlia Stefania dovrebbe andare a testa alta per la morte in esilio del padre, ciò che lo accomuna a molti grandi della storia, in primis Bonaparte. Inutile, poi, ricordare l’autentico Calvario inflitto a Silvio Berlusconi, anche se quest’ultimo in un certo senso se lo è meritato, non avendo saputo scegliersi collaboratori all’altezza, né reagire ai soprusi in modo determinato e non convenzionale, come al suo posto avrebbero fatto personaggi della tempra di Giulio Cesare, Augusto, Napoleone, Churchill o de Gaulle. D’altra parte non era forse giusto pretendere che un semplice imprenditore, per quanto geniale e forse unico nel suo campo, potesse eguagliare quei giganti.

In ogni caso, sbaragliato l’ultimo vero avversario e neutralizzate con mendaci promesse o ridicole lusinghe le mezze tacche tipo Fini, Alfano o Tosi ( dei quali la storia neppure parlerà, ovvero lo farà collocandoli nel folclore nazionale) i post o neocomunisti come li si voglia definire, sono finalmente riusciti ad occupare il potere per intero e a gestirlo indisturbati. Le riforme da loro abbozzate disegnano infatti uno Stato ad uso e consumo dei loro amici, clienti e docili servitori. Il nuovo Parlamento , composto da una Camera eletta con una legge che fa impallidire non soltanto quella truffa del 1953 , ma anche quella Acerbo del 1924, che spalancò le porte alla dittatura, sarà per modo di dire controllata da un Senato di nominati, espressione di Consigli regionali che dopo le prossime elezioni del 31 maggio risulteranno tutti , tranne forse uno, in mano alle sinistre. A questo massacro istituzionale fa da pendant una impressionante serie di provvedimenti economici, sociali e fiscali che, qualora dovessero trovare autentica e puntuale applicazione, trasformerebbero l’Italia nella sola democrazia popolare sopravvissuta al 1991.

Come sono riusciti, in pieno Duemila, a realizzare quel sogno che avevano invano inseguito negli anni di Stalin, di Kruscev e di Breznev? E’ presto detto: grazie alla loro alleanza con i poteri forti, ossia con quella mafia globale che mira ormai apertamente al dominio sul pianeta. Il modello sociale che essi tentano di imporre all’Italia è infatti un ibrido fra un capitalismo monopolistico in salsa germanica e nordamericana, e uno statalismo a tutto campo di tipo sovietico o cecoslovacco. La ragione per cui si sentono onnipotenti è il patto scellerato da loro concluso con il mondo delle banche e della finanza d’assalto. Le vecchie formule di via nazionale al socialismo o eurocomunismo care a Togliatti, Longo e Berlinguer, sono oggi sostituite da una realtà molto meno nobile, anzi decisamente meschina: IL CAPITALCOMUNISMO.

Di fronte al serio rischio che questa coalizione d’interessi illeciti e mortiferi per la Nazione possa durare a lungo, chi non è d’accordo e crede ancora nel valore della libertà, non ha che due strade davanti a sé: abbandonare il Paese o rifondare, a parti invertite, i Comitati di Liberazione. Questi ultimi dovrebbero comprendere, senza discriminazioni o pregiudizi ideologici, sia chi finora si è definito di destra, sia chi si è definito di sinistra, purché intenda contribuire sinceramente alla salvezza delle istituzioni democratiche. Per gli appassionati della toponomastica parlamentare ci sarà tempo di discutere dopo. In questo momento dobbiamo far nostro il detto degli antichi romani, che di politica s’intendevano più dei comunisti: salus rei publicae suprema lex est. Tutto il resto è spazzatura, da gettare nell’immondezzaio della storia, parafrasando una celebre sentenza di Ronald Reagan.

Carlo Vivaldi-Forti