GrishamSto leggendo, a passo spedito, “L’ombra del sicomoro” di John Grisham.

È un Grisham “classico”, il tipo da me prediletto. Lungo, più di 500 pagine. Pieno all’inverosimile di avvocati, di profondo sud, di poveracci, di imbroglioni, di afroamericani, di “questione razziale” faccia bianca/faccia nera, di cibo scadente, di avidità, di denaro a milioni o pochi spiccioli, di miserabile umanità. Il mondo di Grisham è (entusiasmantemente) repellente.

La descrizione che questo grande affabulatore fa della razza degli avvocati e del sistema giudiziario americano in genere oscilla tra il perverso e l’osceno. Da mozzare il respiro.

A questo punto si affaccia alla mia mente la (prima) domanda fondamentale di questo 2 maggio: Grisham scrive ciò che scrive per compiacere al suo pubblico, che lo adora, oppure fotografa la realtà?

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