Pamini 112 b (3)Sembra un paradosso: stiamo vivendo un periodo di inflazione senza aumento di prezzi. È la morsa impietosa che mette sotto pressione moltissime aziende, locali o internazionali che siano.

Prima di tutto siamo vittime di una decennale rivoluzione semantica che ha portato a credere che l’inflazione corrisponda all’aumento dei prezzi (una delle possibili conseguenze, non affatto l’unica) anziché l’emissione di moneta dalle banche centrali (ossia la causa). Basti solo sfogliare il Webster’s Dictionary del 1913, e alla voce inflation si leggerà “l’espansione monetaria causata da sovraemissione”. Dello stesso tenore ancora nel 1932 (!) il Dictionnaire de l’Académie française. Non stiamo parlando del sesso degli angeli, bensì di migliaia di miliardi di Euro emessi in questi anni e di milioni di posti di lavoro in Europa sotto continua pressione. Rievocando la Grande Depressione degli anni ‘30, governi ed economisti ci mettono costantemente in guardia dal rischio di deflazione, modernamente intesa come diminuzione generalizzata del livello dei prezzi, e giustificano pertanto ulteriore produzione monetaria dal nulla per mezzo delle banche centrali, a beneficio del finanziamento del debito statale in continua espansione. La storiella della deflazione non è affatto nuova: la si sentiva nel 2008, e già prima nel 2002.

Chi tralascia il frastuono mediatico e guarda alle statistiche nude e crude vede tuttavia l’esatto opposto: dati alla mano, negli anni il livello dei prezzi in Europa è aumentato, tanto che l’Euro di oggi compra meno del 75% dell’Euro del 1998, al momento della sua introduzione. Una tassazione di un quarto del potere d’acquisto, mentre tutti parlano di deflazione! Ma non solo: dal 2000 al 2013, in Europa il prezzo medio di un Big Mac è aumentato del 40%, a fronte di un aumento medio dell’indice dei prezzi del 29%.

La quantità di moneta emessa dalle banche centrali è letteralmente esplosa negli ultimi anni (oggi più di 5 volte quella del 2008). Questa inflazione in senso stretto non si è pienamente tradotta in aumento generalizzato dei prezzi, bensì molto spesso e in molti settori nella diminuzione della qualità o quantità di prodotti a prezzo costante. In ogni caso un’erosione dissimulata del potere d’acquisto degli investitori e dei risparmiatori, spesso tralasciata nella misurazione ufficiale dell’inflazione. Come già notava l’economista liberale Murray Rothbard, l’inflazione monetaria conduce ad una riduzione della qualità di beni e servizi, poiché spesso i consumatori si oppongono meno agli aumenti di prezzo quando questi avvengono sotto forma di deteriorazione della qualità.

Bastano pochi esempi quotidiani per accorgerci di cosa sta succedendo. Sempre più parliamo con una hotline telefonica automatica anziché con persone vere e proprie. Servizi accessori un tempo offerti vengono soppressi: il parabrezza lavato dal benzinaio, oppure la verifica del livello dell’olio motore o della pressione dei pneumatici. Subiamo code d’attesa più lunghe nelle amministrazioni, o nella sanità per ottenere le stesse cure; addirittura nei commerci come grandi magazzini. Ci vengono offerti pasti di minor qualità negli areoplani, se non vengono integralmente soppressi senza sensibile variazione di prezzo. I grandi magazzini adottano casse self-service dove i consumatori si accollano il lavoro un tempo eseguito dalle cassiere (stipendiate). Stessa dinamica con il self-check-in agli aeroporti.

Il punto non sono le modifiche tecnologiche, che normalmente dovrebbero permettere prezzi al consumo minori, bensì il fatto che i prezzi finali rimangano essenzialmente costanti. Si paga uguale per ricevere di meno. La stessa dinamica la si osserva in molte confezioni dei supermercati, che a parità di prezzo hanno ridotto le quantità.

Pertanto, l’aumento della massa monetaria che sta finanziando gli enormi debiti pubblici (e non solo greci) ha anche questa volta effetti distorsivi sull’economia nel senso di un peggioramento del rapporto prezzo-qualità. Dato che il debito non è altro che uno spostamento di risorse tra persone, è naturale che qualcuno nel mondo debba subire gli effetti della spesa statale finanziata con debito pubblico ed emissione monetaria, come in Europa. Questi sono i consumatori, che subiscono una qualità minore a parità di prezzo anziché prezzi maggiorati a parità di qualità. L’effetto è sempre lo stesso: inflazione nel senso tradizionale, benché non misurata dagli indici statistici.

Paolo Pamini
Economista, Liberales Institut ed ETHZ

(articolo pubblicato nel GdP)