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Le foto di Aylan, il bambino siriano ripescato sulla spiaggia della Turchia, resteranno nella storia. Quella della disperazione e della sventura di tanti esseri umani, e quella del giornalismo. Purtroppo. Un altro bambino messo in mostra per commuovere, per scuotere le coscienze, per finalità che nulla hanno a che vedere con i suoi diritti di persona: dignità, rispetto, difesa contro ogni forma di sfruttamento.

Perché anche Aylan è stato sfruttato. Ci riflettano quei giornalisti che hanno utilizzato le immagini del corpo riverso nell’acqua, sollevato dal soldato, deposto con delicatezza, al termine dell’ennesima tragedia del mare.

Ormai quanti erano i morti? Quanti i fuggiaschi annegati? Troppi. Non facevano più notizia. Cosa si poteva fare per attirare l’attenzione, per risvegliare gli animi, magari anche quello del premier britannico Cameron che finora non aveva voluto ascoltare le urla e i silenzi di morte che giungevano dalle coste della Libia, dalle acque di Lampedusa, dalle spiagge della Sicilia e della Grecia?

Ecco, Aylan è stato il benvenuto. Le sue erano foto che alzavano di nuovo il livello dell’attenzione, della paura. Ottime. In tutto il mondo sono state pubblicate. Per fortuna qualcuno – forse addirittura la maggioranza – ha lasciato sul tavolo della redazione le immagini più crude, quelle in cui si vedevano meglio i lineamenti, gli occhi, il viso del piccolo siriano (e di suo fratello, ripescato più in là). Ma Aylan è diventato protagonista.

E’ avvenuto ciò che gli ideatori della Carta di Treviso avevano voluto evitare, con il piccolo codice etico, approvato nel 1990. Protezione del minore; mai utilizzare il suo nome e la sua immagine, mai renderlo riconoscibile; fare in modo che il giornalista diventi suo alleato e lo preservi dalle conseguenze del fatto in cui è stato coinvolto: notorietà, riflettori, curiosità in eterno, capaci di stravolgere la sua crescita e la sua vita, la sua persona.

La norma approvata a Treviso (e rispettata con crescente convinzione in questi anni) imponeva un’applicazione senza se e senza ma. Per questo furono puniti giornalisti prestigiosi: come Maurizio Costanzo, che aveva portato sul palcoscenico del suo show una zingarella vittima di un energumeno, o Vittorio Feltri, che aveva pubblicato le foto di bambini violentati o prede dei pedofili. “Quelle foto servono a vincere l’insensibilità della gente” dissero per giustificarsi. Ma furono sanzionati. La norma infatti voleva una protezione assoluta del bambino, perfino nei casi nei quali fossero i genitori ad autorizzare la pubblicazione.

Un’icona. Questo è diventato Aylan. Aggiungiamo un “purtroppo”. E’ infatti ciò che sarebbe giusto non fare. Chi mira a un simile obbiettivo utilizza la dignità di quella persona e non capisce che così facendo alza il livello, contribuisce a fare in modo che immagini e storie sempre più terribili siano necessarie in futuro per “interessare” gli insensibili. Quanti Aylan dovremo sacrificare sull’altare del giornalismo? Invece è possibile – e molti colleghi lo hanno dimostrato anche in questa occasione – interpretare diversamente la funzione del giornalista: dare l’informazione, ma ricordandosi di rispettare la dignità delle persone. I bambini, anzitutto, i più indifesi, quelli vivi e quelli annegati.

Vittorio Roidi