GiottoIn fondo alla navata principale di Santa Maria Novella, sospeso a 45 metri di altezza, domina, su tanta bellezza della chiesa fiorentina, il Crocifisso di Giotto.

Datato intorno al 1290, è il primo che rappresenta il Sacrificio per antonomasia con siffatta naturalezza. Il corpo sprofonda verso il basso, spinto dal suo stesso peso. Un corpo che abbandona la vita, col sangue che sgorga e le membra che cadono. Il rosso del disegno geometrico e il nero della croce sono i segni cromatici e tangibili di un grande dolore. Il più grande che si possa pensare, il sacrificio di un figlio.

Sacrum facere, rendere sacro. Se un tempo erano gli uomini che sacrificavano a Dio, stavolta è Dio che sacrifica il suo unico figlio per il bene degli uomini, per la loro salvezza. Giotto abbandona la tradizionale icona bizantina per porre l’accento sulla figura. Il divino si fonde con l’umano. Gesù appare insieme maestoso e sofferente. Il volto è dolente ma composto, regale. Il suo corpo in fin di vita si fa piccolo, il suo insegnamento dal centro della navata si fa grande, potente.

Ma chi è quell’uomo, così naturalistico e così vicino a noi, che dall’alto ci mostra il suo dolore e quello di sua madre e del suo amico fraterno ai lati della croce? Non siamo forse anche noi, al lato di quella croce, a piangere il sacrificio di tanti nostri figli? Dov’è la nostra salvezza? Qual è il fine del nostro rendere sacro? Quale sacralità nell’accettare la nostra umanità al punto da accogliere la nostra violenza? “Misericordia io voglio, e non sacrificio” è scritto nel Vangelo secondo Matteo. Sospeso a 45 metri di altezza, domina, su tanta bellezza, il Crocifisso di Giotto. Ma ancora, quel sacrificio non ci ha insegnato la misericordia.

Alessandra Erriquez