“Ognuno prende i limiti del suo campo visivo per i confini del mondo” – diceva Artur Schopenhauer. L’etimo di una parola suggerisce aspetti sempre ulteriori rispetto al senso che noi gli attribuiamo. Confine, che deriva dal latino cum-finis, ha in sé l’insieme e la fine. Ciò che divide al tempo stesso unisce. È ciò che abbiamo in comune. Quando si parla dei rapporti tra Italia e Svizzera italiana, il confine si fa piuttosto orizzonte. E gli orizzonti sono labili, gli orizzonti uniscono.

Aurora Kuigi RossiIl canto dell’aurora, Luigi Rossi, 1910-12

Guardare verso quell’orizzonte vuol dire guardare a un luogo che ha la stessa lingua, le stesse tradizioni, lo stesso stile di vita. A conferma di tanta fragilità di un artificio, il Ticino ha una sorta di doppia identità, è svizzero ed è italiano. Quando un confine diventa orizzonte e l’orizzonte diventa aspirazione, accade che un luogo come il Ticino diventi un non luogo. Non più fisso, statico, ma punto di partenza, d’arrivo, di passaggio. Centro dinamico, perno di un flusso di persone. Lo testimonia la mostra di Palazzo Reali, Presenze d’arte nella Svizzera italiana, che evidenzia l’evoluzione artistica in funzione di una tradizione migratoria, già avviata dai primi anni di storia del Cantone con gli architetti affermati a Roma e, in pittura, con Pier Francesco Mola e Giovanni Serodine.

ChiattoneIl sogno del pescatore, Luigi Rossi, 1894-1910

Il flusso migratorio trova sfogo soprattutto nell’arte dell’800 quando in Svizzera non esistono centri di formazione accademica né spazi espositivi, e gli artisti sono spinti a muoversi. A Milano vanno gli artisti di lingua italiana, a Monaco quelli tedeschi e a Parigi i francofoni. Verso le capitali dell’arte europea, a imparare e a lasciarsi influenzare, a mostrarsi anche, come fa il celebre scultore Vincenzo Vela. Fino a quando nel 1887, spinta dalla volontà di affermare un’identità anche culturale del Paese, la Confederazione costituisce la Commissione federale per le Belle arti. È la prima volta che si mette in atto una politica culturale nazionale, cui farà seguito in ambito locale la creazione della Società ticinese di Belle arti. Vengono acquistate opere d’arte e organizzate esposizioni, ancora non si formerà un’Accademia ma si inizierà a parlarne.

Intanto formati all’Accademia di Brera di Milano (tra i fondatori c’è Giocondo Albertolli), gli artisti ticinesi risentono anzitutto dell’influenza della Scapigliatura, movimento che prende il nome dalla libera traduzione del francese bohème. È il caso ad esempio di Filippo Franzoni e Adolfo Feragutti Visconti. Ma c’è un’altra corrente che ispira l’arte nella Svizzera italiana, il Divisionismo, che da Giovanni Giacometti a Leonardo Dudreville intinge le tele di un colore diviso, con una applicazione più astratta per l’uno e più naturalistica per l’altro. Tra scapigliati, divisionisti e anche simbolisti, insomma in un clima di grande attenzione alle nuove tendenze europee, il Ticino vive una fase di eccezionale fermento artistico.

Alpe GiacomettiSera sull’alpe, Giovanni Giacometti, 1908

Tanta vivacità viene interrotta con lo scoppio della Prima guerra mondiale quando le frontiere vengono chiuse e per la prima volta viene meno quella libertà di movimento che tanto aveva giovato alla crescita culturale. Ma il movimento non si arresta del tutto. Piuttosto cambia verso. Dalle emigrazioni verso le capitali culturali d’Europa si passa a un processo immigratorio. Molti avanguardisti si trasferiscono in Svizzera, a Zurigo soprattutto, dove nasce il movimento dadaista che si diffonderà poi anche nel Ticino, attratto dal clima energico di Ascona. Attorno al monte Verità si concentrano infatti artisti da tutto il mondo. Alcuni danno vita nel 1924 all’associazione Der Grosse Bär (L’Orsa maggiore), tra i cui fondatori figurano Marianne Werefkin e Otto van Rees. Obiettivo è promuovere l’arte ticinese senza regole o limitazioni, gli artisti del gruppo si esprimono liberamente secondo le più diverse forme che siano classiche o cubiste. Grande fervore anche più a sud, nel mendrisiotto, dove attorno a Castel san Pietro nasce il Rot-Blau e l’espressionismo svizzero. I monti diventano qui grande fonte d’ispirazione.

Ma quando tra le due guerre si diffonde un clima di difesa della propria identità, atteggiamento che si traduce in un vero e proprio ostracismo nei confronti degli stranieri, ecco che la cultura ticinese vive una fase di ripiegamento in se stessa. In questo periodo sarà Giuseppe Foglia l’unico a opporsi a tanta limitante chiusura in vista di un’arte di aspirazione universale. La rinascita si avrà quando, con la caduta del fascismo, Milano si avvia verso il boom economico e il rinnovamento culturale. D’altra parte, arrivano in Ticino figure fondamentali della storia dell’arte: Kandinsky, Jawlensky, Klee.

Le presenze straniere in Ticino devono gran parte del merito a Remo Rossi, scultore di forte influenza politica, vero ambasciatore del Ticino artistico. Rossi fa costruire nel vecchio deposito di marmo, in un terreno di sua proprietà ai Saleggi, un complesso di atelier a disposizione degli artisti provenienti da fuori cantone. Il primo a insediarsi è Jean Arp. Dopo di lui, Richter, Glarner, Probst e tanti altri che costituiscono una comunità, Arp la chiama Kibbutz, che conferisce al Ticino una vocazione internazionale. Ancora una volta, la cultura fiorisce nell’apertura, nello scambio, nel confronto tra due realtà di confine. Dove il limite si trasforma in orizzonte.

– Fondazione IAC –