“Lo Stato ha diritto di giudicare il valore di una vita umana?”
Ci sono vite non più degne di essere vissute?

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Oggi si apre la sessione primaverile del Gran Consiglio, il cui ordine del giorno prevede, tra l’altro, la discussione sull’accesso agli ospedali e alle case anziani delle associazioni per l’aiuto al suicidio, proposta dall’on. Delcò Petralli e oggetto del Rapporto della Commissione sanitaria redatto dai deputati Morisoli e Ghisla.

I motivi per respingere la proposta sono tutti esaustivamente enumerati e trattati nel Rapporto della Commissione sanitaria. Ciò che vogliamo mettere in luce sono le implicazioni sottese all’accesso delle associazioni in ospedali e nosocomi e qualche possibile conseguenza.

L’ospedale è un luogo di cura. Medici e infermieri sono formati per salvare vite umane. Chiaramente ciò non è sempre possibile. Quello che rimane vero però è che ciò per cui essi vanno a lavorare ogni mattina è salvare la vita del paziente che arriva, migliorarla, alleviarla. Questo perché ognuno di noi riconosce nella propria vita un bene. Indipendentemente da qualsiasi riferimento religioso questo bene, in quanto unico e irripetibile, è accompagnato da un istinto di preservazione. Qualsiasi essere vivente, dall’uomo al gatto, e al millepiedi, riconosce nella vita qualcosa di buono, rifugge da ciò che potrebbe arrecare dolore o mettere a repentaglio tale bene e ricerca invece ciò che potrebbe migliorare la vita e renderla più felice.

Si chiama istinto, non Dio. Che la vita sia un bene, dunque, non lo impariamo dal catechismo, ma lo impariamo vivendo. E questo è chiaramente riconosciuto anche dal diritto, a partire dalla Costituzione, fino al Codice Penale, passando poi da varie leggi speciali che si occupano di migliorare la qualità della vita. Si potrebbe dire, senza esagerare, che l’intero sistema legislativo sia fondato sul riconoscimento della vita quale bene primordiale dell’uomo, in mancanza del quale qualsiasi altro bene risulta precluso.

E questo che cosa c’entra con l’accesso delle associazioni a ospedali e nosocomi? C’entra perché permettere l’accesso significa soverchiare l’intero sistema fondato sulla preservazione del bene-vita. Ciò che è fondamentale è il fatto di riconoscere che l’assistenza al suicidio si gioca su due piani nettamente distinti, il primo strettamente personale, il secondo, invece, pubblico.

A livello pubblico, lo Stato non può riconoscere la fondatezza di una richiesta di suicidio assistito e permettere che nei propri spazi, preposti alla cura, esso avvenga. Questo perché significherebbe ammettere, da parte dello Stato, che certe vite non valgono la pena di essere vissute. Ammettere che certe vite valgono meno di altre. Ammettere che comprende e sostiene una richiesta di aiuto al suicidio perché in certe situazioni effettivamente la vita è un male e colui che vive questa situazione deve essere giustamente aiutato a morire. Ammettere dunque il diritto dello Stato di giudicare il valore della vita umana.

Ma allora perché tanto aiuto ad altre persone che invece desiderano vivere, pur trovandosi oggettivamente in situazioni disperate? Perché allora, in fin dei conti, sostenere il diritto alla vita degli handicappati o dei bambini nati anencefali?

Lo Stato non può ammettere, in silenzio, che il suicidio assistito diventi materia su cui legiferare. Perché in uno Stato democratico non esistono cittadini di serie A e cittadini di serie B. Questo giudizio deve essere impedito non solamente perché non ne possiamo controllare le conseguenze pratiche, ma anche perché significherebbe che lo Stato passa un messaggio molto chiaro ai medici e ai malati. Nei confronti della categoria formata per salvare vite ammetterebbe che ci sono situazioni in cui effettivamente non vale la pena impegnarsi perché la vita non vale più. Che converrebbe liberare un letto che costa e che potrebbe essere occupato da qualcun altro che beneficia di una qualità di vita oggettivamente superiore. E dice anche che il bene che sono stati formati per preservare è relativo, è soggettivo.

Ai malati invece dice che possono scegliere se continuare una vita che effettivamente manca di qualità e che soggettivamente potrebbe essere considerata come un male, o, invece, finirla con sofferenza e dolori. Ricordiamo che avere una scelta non è come non averla. E alle volte, raramente ma in questo caso è cosi, meglio non avere alternative. Ammettendo tale accesso, arriverà il giorno in cui un anziano o un malato si sentirà in obbligo di giustificare la sua scelta a favore della vita, benché costi, benché venga guardato come candidato per la stanza del suicidio.

Non possiamo giudicare la migliore alternativa per noi, in questo momento, con l’attuale legislazione, e con l’attuale stato di salute. Bisogna guardare un attimo più in là del nostro naso. Il giorno, speriamo lontano, in cui saremo malati o che un nostro familiare sarà malato, ciò che desidereremo sarà di essere guardati dal personale di cura come persone, con dignità intatta, fino al momento della morte. I medici e gli infermieri che si prodighino in cure e sostegno, che si mettano al nostro posto per un attimo, che siano umani a sufficienza per rendersi conto che non si trovano davanti a un rene malato, ma a una persona malata. Che non perdano la voglia di combattere con noi, che non ci propongano di farla finita perché la malattia ci sta facendo perdere la dignità. E noi non vorremmo sentirci di peso, un malato troppo attaccato alla vita, di quelli che non capiscono che se l’ora non arriva, bisogna darle una mano. In un momento di estrema debolezza, all’interno di una casa di riposo, quando la famiglia sembra essersi dimenticata di noi, quando i giorni si susseguono uno dopo l’altro, invariabili, quando gli acciacchi saranno innumerevoli, dovremmo forse essere guardati come esseri umani che valgono ancora qualcosa. In nome di un preteso diritto al suicidio, non possiamo permettere che lo Stato dica ai nostri anziani che la loro vita non vale più la pena di essere vissuta.

Questo non lo vuole nessuno. Per scongiurare questo scenario, è necessario appoggiare le conclusioni delle Commissione sanitaria.

Benedetta Galetti