braccio-di-ferro-586x279 xDa due anni si fa un gran parlare dell’applicazione dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa, accettata dal popolo il 9 febbraio 2014. Appunto: un gran parlare, ma poca concretezza. Il Consiglio federale ha dato l’impressione di voler lasciar passare il tempo senza nulla intraprendere, nella speranza che gli umori nella popolazione cambino e che i cittadini, passati 3 o 4 anni e scontrandosi le richieste svizzere contro il «Niet» di Bruxelles e messi di fronte al rischio di far cadere i Trattati bilaterali, ritornino sui loro passi e sconfessino quanto accettato il 9 febbraio di due anni fa, riconfermando sostanzialmente il Trattato sulla libera circolazione accettato nel 2000.

MinottiNelle ultime settimane la discussione si è fatta un po’ più concreta: il Consiglio federale ha presentato una proposta di applicazione unilaterale dell’iniziativa tramite una clausola di salvaguardia, che però la stessa consigliera federale Sommaruga ha dichiarato trattarsi solo di un «piano B», da applicarsi nel caso che non si riesca ad addivenire a un accordo consensuale con Bruxelles che il C.F. preferirebbe (C’è forse qualcuno che ne dubitava?). Nel frattempo il Consiglio di Stato ticinese ha presentato ufficialmente a Berna la «proposta ticinese» di applicazione del 9 febbraio – proposta elaborata con la consulenza dell’ex ambasciatore Michael Ambühl – che prevede una applicazione per regione e per settore economico, facendo scattare una clausola di preferenza indigena differenziata a seconda dei bisogni appunto dei singoli settori e delle singole regioni. Negli scorsi giorni il gruppo PLR alle Camere si è detto favorevole all’adozione di tale «modello ticinese», perfezionandolo per renderlo adatto a un’applicazione su piano nazionale. (Come noto, la proposta ticinese prende lo spunto naturalmente dalla situazione nel nostro Cantone dove il problema principale sono i frontalieri).

Da parte loro i sindacati e la Sinistra hanno ripetuto il loro ritornello che la soluzione non sta nel fissare contingenti e nel limitare gli stranieri, ma nell’imporre le cosidette misure accompagnatorie (cioè in parole povere: obbligando per decreto la maggior parte dei settori economici a sottoscrivere contratti collettivi di lavoro tramite una «sindacalizzazione» forzata del mercato del lavoro). Ma la Sinistra non tiene conto del fatto che vi è stato comunque un voto popolare che ha segnalato la necessità di un contenimento dell’immigrazione! Il problema del dumping salariale che si instaura con l’afflusso dei lavoratori esteri (frontalieri o no), è solo un aspetto, benché importante, del problema; resta l’aspetto più in generale di una regolazione quantitativa e di una riduzione sensibile del saldo netto immigratorio, che è sentito da molti cittadini.

Insomma occorrerà poi vedere che cosa la politica bernese ci apparecchierà sotto il titolo «applicazione del 9 febbraio». Non basterà di certo, a nostro avviso, una finta soluzione che cambi poco o niente alla situazione attuale, che vada bene all’economia e che soprattutto sia accettabile anche dall’UE: la soluzione scelta dovrà anche incidere, permettendo di ridurre in modo significativo il flusso inarrestabile di nuovi lavoratori residenti e di residenti tout court, di frontalieri e anche di richiedenti l’asilo (perché l’iniziativa accettata il 9 febbraio 2014 impone di computare anche quest’ultimi nel totale complessivo delle statistiche degli stranieri).

Studi da prendere con le pinze
Nel frattempo si è messa in moto la macchina per il lavaggio dei cervelli promossa dalle associazioni economiche, in primis Economiesuisse, finalizzata a far paura al cittadino nell’eventualità che l’applicazione dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa dovesse portare alla disdetta dei Trattati bilaterali con l’UE. Ciò arrecherebbe un grave danno all’economia svizzera, predica Economiesuisse che – in un recente studio svolto sotto la sua egida – fa sapere che la rinuncia ai Bilaterali ci costerebbe 4’400,- franchi per testa d’abitante in Svizzera; a tanto ammonterebbe il valore aggiunto supplementare portato dagli Accordi bilaterali, pari a un 5,7 per cento di PIL pro capite in più per gli ultimi 12 anni dall’entrata in vigore dei bilaterali.

Ma se si analizzano tali cifre da vicino, come ha notato il giornalista Dominik Feusi sulla «Basler Zeitung» del 16 marzo scorso, sorgono parecchi dubbi sulla loro attendibilità. I ricercatori si sono basati sui dati del PIL, che negli anni 2002-2014 hanno fatto registrare un incremento medio dello 0,92 percento annuo pro capite, contro un incremento di solo lo 0,53 percento nei dieci anni precedenti (quando i bilaterali non c’erano ancora). Si tratta di un incremento notevole, ma è tutto da attribuire ai bilaterali? Inoltre, questi dati sono veramente indicativi dell’aumento della ricchezza pro capite reale? Sorvolando sulle modalità tecniche di calcolo che possono aver portato – secondo Feusi – a un abbellimento dei dati statistici del PIL post-bilaterali, non è dato sapere se siano stati considerati gli effetti del rialzo del franco. Effetti ambivalenti: da un lato problemi per alcuni settori economici rivolti all’esportazione, d’altra parte però sicuramente anche un rafforzamento del potere d’acquisto dei cittadini svizzeri.
Ma soprattutto, dice sempre Feusi, a fronte dei presunti (e ancora da dimostrare) vantaggi portati dai Bilaterali, stanno i costi provocati dalla libera circolazione (per es. nel campo della scuola e delle infrastrutture), su cui finora non si sono mai fatti studi. In definitiva, come gli stessi autori dello studio hanno ammesso nella presentazione alla stampa, non può essere dedotto un rapporto diretto di causalità tra bilaterali e andamento del PIL svizzero, ma si può ipotizzare solo «una certa correlazione».

Perché allora parliamo di «lavaggio dei cervelli»? Ma è evidente: buona parte dei cittadini legge solo i titoli dei giornali e dei telegiornali, e non legge per intero le spiegazioni delle notizie riportate, in questo caso i risultati dello studio di Economiesuisse. Ammesso e non concesso che tutti i giornali li abbiano riportati in dettaglio e analizzati criticamente.

Ma lo scopo di tali studi è secondo noi proprio quello di far titolare i giornali, con l’effetto propagandistico correlato. Se sono fatti seriamente, e come sono stati fatti, «non gliene frega niente a nessuno». Ma l’effetto di «bombardamento mediatico» è assicurato e, se ripetuto più e più volte, tende a convincere i cittadini che ci deve essere qualcosa di vero e che «sarà bene guardarsi dal rischio che i bilaterali vengano disdetti».

Ma c’è davvero il rischio di disdetta dei Bilaterali?
Ma la domanda che ci si deve porre è: di fronte alla denuncia da parte svizzera dell’Accordo sulla libera circolazione, sussiste veramente il rischio di una disdetta anche degli altri bilaterali da parte UE? È molto poco probabile, considerato che alcuni di questi Trattati sono di grande importanza anche per l’UE, o almeno per alcuni Paesi UE (e una eventuale disdetta dovrebbe essere approvata da tutti i 28 Paesi!). Ma anche se ciò dovesse avvenire, le ripercussioni negative per l’economia svizzera sarebbero abbastanza contenute. In specie per quanto riguarda la certificazione e il libero accesso al mercato UE di prodotti svizzeri (che è il più importante dei 7 accordi bilaterali per la nostra economia), non ci dovrebbero essere inconvenienti gravi, ma al massimo qualche trafila burocratica in più per le nostre aziende. Il 95 percento degli scambi commerciali sono infatti al riparo da eventuali sanzioni UE in quanto sono protetti dagli Accordi WTO sul libero commercio.

Occorrerebbe un approccio positivo
A mio modesto parere vi è stato un approccio fondamentalmente sbagliato, da parte degli ambienti economici e di alcuni politici e giornalisti, rispetto all’applicazione dell’articolo costituzionale votato il 9 febbraio 2014. Ancora prima di elaborare una bozza di legge di applicazione ci si chiedeva «ma chissà poi se l’UE l’accetterà?» (e per questo la Sommaruga è andato varie volte in pellegrinaggio a Bruxelles, col rischio anche di farsi dire: «ma cominciate a decidere voi che cosa volete fare, prima di venirci a rompere le scatole»); inoltre, internamente, si paventava il rischio che qualche settore economico rischiasse di restare senza manodopera e fosse costretto a delocalizzare; si dipingeva a tinte fosche la reintroduzione del «sistema rigido» dei contingenti, ecc..

Ma, a parte il fatto che la Svizzera per più di 30 anni ha convissuto ed è cresciuta (secondo me: anche troppo) con il sistema dei contingenti, non risponde a un atteggiamento razionale il paventare pericoli prima ancora di avere precisato gli obiettivi numerici dell’iniziativa e avere tentato di concretizzarli! Tra l’altro, come diceva Fulvio Pelli in un recente dibattito su Teleticino, «finora non si sono fatte cifre (del saldo ammesso di immigrazione) e il punto controverso sarà proprio quello». Pelli lo diceva sul tono del rimprovero bonario agli iniziativisti, ma sa benissimo che se l’UDC avesse fatto delle cifre precise, l’avrebbero accusata di rigidità inaccettabile di un articolo costituzionale e di chissà quali altre nefandezze….

Ad ogni modo, solo con una proposta con cifre indicative precise, si potranno cominciare a fare valutazioni serie. E a partire da quei limiti precisi anche l’economia potrà (e dovrebbe!) per prima cosa tentare di starci dentro in quelle cifre, di fare in modo cioè di potere continuare le sue attività rispettando quella che è, fino a prova del contrario, la volontà popolare. E ciò, previa una serie di valutazioni e l’adozione – di concerto con la politica – di alcune misure atte a rendere possibile l’implementazione della decisione del popolo senza che vi siano effetti troppo negativi per l’economia o, in altre parole, di conciliare per quanto possibile le esigenze economiche e la decisione politica presa.

Misure alternative all’immigrazione
Una parte di tali opzioni sono già da tempo state ipotizzate, sia in relazione alla votazione del 9 febbraio che indipendentemente da essa: ad esempio: 1) Andrebbe risolutamente incoraggiata la scelta di alcuni indirizzi professionali e universitari finora massicciamente trascurati da svizzeri e residenti (studi scientifici, di ingegneria, ecc.), disincentivando facoltà e indirizzi per i quali non vi è richiesta (se non nel settore pubblico parassitario: posti creati solo per dare uno sbocco a certi laureati disoccupati);
2) Incremento del tasso femminile di partecipazione al mercato del lavoro (proposte di alcuni fa da parte tra l’altro del PLR svizzero e di Economiesuisse). Questo punto è in parte legato al punto precedente (il numero delle studentesse in ingegneria è peraltro già ora in crescita e andrebbe ulteriormente incentivato), ma può implicare anche misure di sostegno come asili nido o possibilità di lavoro part time; misure che – sia detto a scanso di equivoci – non necessariamente devono essere sostenute da sussidi dello Stato, ma dovrebbero essere adottate autonomamente dall’economia (in specie da parte delle grandi aziende).
3) Le aziende (in specie le grandi aziende) ovviamente faranno anche una valutazione se non sia il caso di delocalizzare quelle attività, in specie a basso valore aggiunto, per le quali diventasse difficile reperire sufficiente manodopera. Questo è quanto peraltro già parzialmente avvenuto da alcuni decenni: una spinta in tal senso la diede proprio la «politica di stabilizzazione della manodopera estera» adottata nel 1970 quale controprogetto indiretto all’iniziativa Schwarzenbach respinta di misura dal popolo svizzero. Questa evoluzione si accompagna peraltro al franco forte, che spinge già in tale direzione; essa non va a priori demonizzata, ma in una certa misura favorisce l’efficientizzazione della struttura economica svizzera.
4) In questo ordine di idee si inserisce anche una meno facile erogazione di aiuti sociali e indennità di disoccupazione (in specie a giovani) – accoppiata a una offerta di corsi di recupero e riqualificazione professionale – finalizzata a diminuire la quota di persone mantenute dalla mano pubblica senza che lavorino.

Tutte le misure citate, e altre ancora, dovrebbero avere come conseguenza un aumento della percentuale di popolazione residente attiva, contenendo quindi la necessità di nuovi Immigrati.

Paolo Camillo Minotti