“Lo studio aveva un chiaro intento politico manipolatorio dell’opinione pubblica”

Minotti risponde a Merlini

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Merlini 200Un articolo recente del consigliere nazionale Giovanni Merlini, che “rivanga” la polemica che ci fu a proposito dello studio dell’IRE sui frontalieri e il mercato del lavoro ticinese, ci dà l’occasione di tornare a dire due cosette su questa questione che suscitò qualche mese fa una appassionata contesa sui massmedia nostrani.

Sotto il titolo “L’università e la Supsi sotto tutela politica?”, nel CdT del 31 marzo u.s. Merlini scrive che il G.C. ha fatto male a decidere di istituire una Commissione di controllo del mandato pubblico di USI e SUPSI, una decisione che sarebbe eccessiva e poco lungimirante. Secondo Merlini il Gran Consiglio ha già ora ampie facoltà di incidere sulla politica universitaria del Cantone, sia in relazione alle scelte strategiche sugli studi universitari nel Ticino (e relativi finanziamenti), sia anche per quanto riguarda il controllo dei risultati a consuntivo (controllo sia finanziario sia di conformità con il mandato di prestazione concesso). Può darsi che Merlini su questo punto abbia ragione: spesso infatti i parlamenti – sull’onda di casi che suscitano clamore mediatico – decidono di istituire nuove istanze, o nuove leggi, senza ponderare bene quanto si potrebbe già fare con la sterminata giungla delle leggi esistenti e con un attento lavoro parlamentare.

MinottiMa ciò che induce a una riflessione è quanto Merlini scrive nel prosieguo del suo articolo: dopo aver illustrato la necessità che soprattutto le università siano libere di studiare ad ampio raggio (senza doversi limitare ad approfondire ciò che l’economia richiede in quel momento e soprattutto senza condizionamenti di tipo politico), egli conclude affermando: “I sentimenti di rivalsa nei confronti della ricerca e dell’ambiente accademico (si ricorderanno le reazioni scomposte di alcuni deputati ad un recente studio dell’IRE sugli effetti della libera circolazione delle persone nel nostro cantone) sono fuori luogo e non giovano alla promozione strategica  del Ticino dell’innovazione e del progresso”.

Non sono d’accordo con Merlini: se si ricordano reazioni “scomposte” (io direi piuttosto: legittime nella sostanza e in qualche caso un po’ eccessive nei toni) da parte di chi criticò il noto studio dell’IRE, si dovrebbe forse anche ammettere, en passant, che tale studio – già a un esame superficiale – denotava di essere stato condotto con criteri discutibili e non molto approfonditi e che perciò non aiutava per nulla o aiutava ben poco a capire meglio la realtà del mondo del lavoro ticinese. Basti dire che per accertare se vi fosse o no un effetto di sostituzione di lavoratori residenti da parte di frontalieri sul mercato del lavoro, i suoi autori si erano limitati a interpellare a tal riguardo i datori di lavoro… ciò che è quasi una barzelletta.

Inoltre, se si vuole giudicare oggettivamente quella vicenda, occorrerebbe dire anche che si è ecceduto, da parte di chi difendeva l’operato dell’IRE, nel reagire alle critiche e nell’attaccare chi le aveva fatte. A tal riguardo basti citare il parallelo tratteggiato in un articolo sul “Corriere” (da parte del presidente dell’USI) fra i critici del citato studio e i regimi totalitari del Novecento! Un parallelo molto sopra le righe, che non ha aiutato certamente ad affrontare questa vicenda – in sé tutto sommato circoscritta – con la necessaria oggettività e con il dovuto senso della misura. Se vi fosse stata, da parte dell’istituzione universitaria e dai suoi pretesi difensori, una reazione meno insofferente alle critiche e più “laica” (per esempio cogliendo la suggestione di far svolgere ulteriori studi a integrazione di quello contestato), probabilmente non si sarebbe mai arrivati alla succitata decisione del Gran Consiglio. Dopotutto neppure gli organismi universitari dovrebbero rivendicare la pretesa dell’infallibilità, che da molto tempo nella stessa Chiesa viene contestata al Pontefice romano. La storia dello sviluppo della scienza, e in generale la storia della moderna civiltà occidentale, ci ha insegnato che ogni risultato intermedio ottenuto non dovrebbe mai essere acquisito quale dogma e dovrebbe sempre poter essere contraddetto e confutato. Figuriamoci poi nel campo dell’economia, che (contrariamente a quanto forse qualcuno pensa) è tutt’altro che una scienza esatta! Fino a prova contraria in una società liberaldemocratica deve sussistere la libertà di critica.

In realtà questa pretesa volontà della politica di “mettere sotto tutela” l’università è un po’ una fantasia faziosa degli irriducibili antagonisti della Lega. Per carità: è legittimo criticare la parte politica che non si ama, ma non spacciamo questo “antileghismo primario” come difesa delle istituzioni facendo finta che ci siano in gioco i “massimi sistemi”, quando tutt’al più ci sono in gioco (dalle due parti) delle clientele e degli interessi ben precisi. Sì, perché se si parla di ingerenza della politica nell’università, farebbe ridere i polli chi affermasse che ciò sia una peculiarità specifica della Lega e di chi occasionalmente su questo tema l’ha spalleggiata. C’è forse qualcuno infatti che osa dire seriamente che il Prof. Rico Maggi sia indipendente dalla politica o che egli non sia legato con filo diretto a certi ambienti economici (Camera di commercio) e a certi “poteri forti” in Svizzera (per esempio il Seco)? E allora? Allora per favore sdrammatizziamo i toni.

Resta il fatto che a mio parere quello studio contestato dell’IRE era – eccome – un’ “operazione politica” nell’ambito della battaglia propagandistica contro l’applicazione dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa e contro ogni misura di limitazione dell’afflusso dei frontalieri (che – non giriamoci attorno – al mondo economico fanno comodo perché vengono pagati meno), nonché nella battaglia parallela per far credere che la caduta degli Accordi bilaterali sarebbe una sciagura per il nostro Paese (quando chi affronti oggettivamente il tema non può non ammettere che le conseguenze di una disdetta di tali accordi non sarebbe così catastrofica come viene dipinta e che la libera circolazione porta vantaggi all’economia ma pure costi e svantaggi alla società e alla generalità dei cittadini)!

D’altronde: che lo studio avesse un chiaro intento politico manipolatorio dell’opinione pubblica, lo conferma a mio modo di vedere la reazione (questa sì smodata) di chi si è sentito colpito dalle dure critiche ch’esso ha suscitato. Perché si trattò – questa la mia impressione – della tipica reazione di chi si sente “colto in fallo”.

Paolo Camillo Minotti (già granconsigliere UDC)