Vivaldi-Forti-1x1 yIl sistema bancario è ovunque sotto accusa, ritenuto uno dei massimi responsabili della crisi globale, oltre che del declino del nostro Paese. Anche se questa interpretazione può sembrare forse eccessiva, senza dubbio molto di vero c’è. In particolare, per quanto riguarda l’Italia, le cronache recenti si sono riempite di scandali che vedono protagonisti diversi istituti di credito, trascinati nel baratro da amministratori disonesti e incapaci , pronti a truffare azionisti e risparmiatori ma fedelissimi ai politici che li hanno immeritatamente promossi a quelle alte cariche, in cambio di favori di ogni genere. I legami tra grande finanza e partiti, soprattutto quelli vicini al governo, non sono mai emersi più chiari di così. Il caso italiano non è però l’unico e neppure il più importante.

Sappiamo ormai che la recessione economica e il contemporaneo imbastardimento della civiltà occidentale sono stati programmati a tavolino da un ristrettissimo gruppo di speculatori dediti al crimine planetario, che si erano proposti di trarre profitti abnormi dalla fine della guerra fredda , cercando di sfruttare il nemico sconfitto , l’ex-Unione Sovietica. Vista poi l’inanità di questi sforzi, hanno puntato tutte le carte,ossia i capitali, sui Paesi emergenti in Asia, Africa e America Latina, che avrebbero dovuto rappresentare il nuovo Far West, promettente e inesauribile miniera d’oro, mentre l’Europa, insieme ad altri popoli una volta ricchi come il Giappone, sarebbero stati ridotti nella misera condizione di colonia , allo scopo di acquisirne le migliori aziende e la più qualificata manodopera a prezzi di realizzo.

La fase negativa in cui ci troviamo è maturata nell’ambiente bancario-finanziario internazionale , effetto di una politica dissennata dei principali istituti di credito, che si sono abbandonati alla pura speculazione su prodotti totalmente fittizi, mentre negavano il necessario sostegno all’economia reale, contraddicendo oltre tutto la specifica vocazione della banca. L’illusione di poter vivere di rendita sulla presunta vittoria della guerra fredda ha scatenato gli appetiti di molti , sprofondando gran parte dell’Occidente in una situazione disperata, dalla quale non si comprende se e quando potrà uscire. Eppure, gli stessi responsabili di tale catastrofe potrebbero fornire un valido e determinante aiuto alla ripresa qualora cambiassero mentalità, obiettivi e strategie. Traguardo peraltro assai utopistico: per operare simile trasformazione occorrerebbe infatti abbracciare una cultura finanziaria e imprenditoriale completamente nuova.

Innanzitutto la banca ricominci a fare il suo mestiere , cioè torni a rappresentare il puntello dell’economia produttiva e abbandoni la sterile speculazione. Poi si studino diverse forme e strumenti di sostegno alle aziende. La condizione essenziale per uscire dal declino è il rilancio della produzione: tutto il resto è fumo. Per ottenere ciò bisogna rimettere in moto il mercato, ma le ricette keynesiane, fondate sul “tassa e spendi” , sono oggi improponibili. Cosa rimane da tassare, dopo la sistematica distruzione del risparmio privato e del ceto medio che l’accumulava? Ogni ulteriore aumento d’ imposte, in virtù del ben noto effetto Titanic, non farebbe che abbattere quel poco di produzione superstite, paralizzando totalmente il sistema. L’unica possibilità è immettere nel mondo dell’impresa almeno una parte dell’enorme liquidità detenuta dalle banche, ma non secondo gli schemi tradizionali. Per stimolare lo sviluppo occorre favorire la formazione di nuove aziende. E’ quindi necessario puntare sull’imprenditoria giovanile, sulla ricerca scientifica, sull’innovazione tecnologica, sulle competenza professionali dei nuovi operatori.
Questi, però, salvo fortunate eccezioni, non dispongono di beni propri, né per autofinanziarsi, né per concederli in garanzia. Pertanto, il vecchio modo d’erogare il credito esclusivamente a chi è già ricco, disinteressandosi oltretutto delle ragioni di merito per cui viene richiesto, deve essere abbandonato. La nuova banca dovrà innanzitutto valutare tecnicamente la sostenibilità del progetto e, in caso positivo, diventare a tutti gli effetti socia dell’azienda finanziata, alla quale provvederà il capitale di partenza senza chiedere né garanzie reali né interessi fissi, bensì la partecipazione alla metà degli utili d’esercizio. Lo spirito di tale modus operandi, che richiama la formula del Venture Capital , è quello dell’associazione in partecipazione. Questa esige che l’istituto finanziatore acquisti il 50% del pacchetto azionario o delle quote della società affidata, e che un suo rappresentante sieda in permanenza nel Cda della stessa, munito di golden share , o potere di veto, a prevenzione d ‘eventuali operazioni non trasparenti o a forte rischio.
L’obiettivo comune del finanziatore e del finanziato resta la crescita più rapida ed equilibrata possibile dell’impresa, in modo che i suoi profitti aumentino gradualmente, come pure il suo valore di mercato. Dopo un periodo ragionevole, stabilito in contratto, le parti decideranno se proseguire il lavoro insieme, dividersi acquistando l’una il pacchetto dell’altra, ovvero liquidare di comune accordo l’azienda, in caso di obiettiva e documentata impossibilità a continuare. Tale soluzione permetterebbe al tempo stesso di rilanciare la funzione specifica della banca e sostenere l’economia produttiva, la sola da cui dipende la ricchezza del Paese.

Qualora le attuali classi dirigenti economiche e politiche fossero un po’ meno ignoranti di come sono, più attente alla cultura e meno allo studio dei meccanismi con cui truffare il prossimo, troverebbero nella storia abbondante materia di riflessione. Noi viviamo in un Paese che fin dal Medioevo ha dato via ai primi istituti di credito del mondo, centri propulsori della grande mercatura internazionale e della ricchezza che questa ha prodotto in tutte le città della penisola. Le meravigliose opere d’arte che ancor oggi richiamano milioni di turisti, sono frutto di quel remoto miracolo. Non occorre andare molto lontani per imbattersi in esempi all’epoca luminosi quali il Monte dei Paschi di Siena, la Banca del Monte di Roma, il Banco Medici di Firenze e tanti altri. Uno dei più originali e meritevoli d’approfondimento , per le sue specifiche caratteristiche, è il Banco di San Giorgio di Genova.

La sua nascita risale al 1148, quando la Repubblica ligure ricevette un considerevole finanziamento da un gruppo di mercanti per la spedizione militare contro Almeria e Torsosa occupate dai Mori. Questi si riunirono in una società di prestatori di denaro allo Stato, ottenendone in cambio l’assegnazione di alcune gabelle, i cui proventi dovevano servire al pagamento degl’interessi e all’ammortamento del debito in un certo numero d’anni. Ad essa fu dato il nome di Compagnia di San Giorgio , la quale cominciò a vendere azioni , dette Luoghi, il cui rendimento veniva assicurato dagli introiti delle singole imposte ricevute in garanzia. Il sistema adottato per l’ammortamento del debito pubblico si rivelava semplice e geniale. L’interesse pagato ai creditori era sempre inferiore, almeno di un punto, al rendimento della gabella corrispondente. Tale differenza era destinata alla redenzione del prestito; accumulandosi, si convertiva in nuove azioni, fino alla sua completa estinzione.

Le azioni somigliavano ai moderni Buoni del Tesoro, che i più doviziosi cittadini acquistavano e custodivano nel loro patrimonio, a condizione che l’ente emettitore non spendesse il capitale , ma lo accumulasse allo scopo di produrne altro , sulla base della teoria del moltiplico o interesse composto. Simile modalità di finanziare lo Stato divenne la regola, tanto che nacquero molti titoli di credito con caratteristiche diverse fra loro. Applicando questa tecnica finanziaria, consona al carattere proverbialmente risparmino dei genovesi, ben presto la Compagnia di San Giorgio divenne uno degli enti più ricchi di tutto il Mediterraneo.

Fu allora, precisamente nel 1407, che essa si trasformò in un’azienda di credito a tutto campo, mutando la ragione sociale da Casa in Banco. La sua operatività non si limitò più alla gestione e all’ammortamento del debito pubblico, ma si estese al finanziamento delle attività private. I prestiti venivano erogati a tutte le forme d’impresa, grandi e piccole, commerciali, industriali , artigiane, agricole. I criteri d’affidamento si basavano sulla valutazione non del patrimonio dell’affidatario, ma delle sue doti personali: l’onestà, le capacità tecniche, la bontà e concretezza del progetto . I risultati di questa filosofia bancaria non tardarono a manifestarsi: Genova divenne una delle superpotenze economiche europee, alla quale facevano pure ricorso le grandi dinastie reali. Il celebre storico Ramòn Carande, nella sua magistrale opera Carlo V e i suoi banchieri, documenta come l’elezione di questo imperatore non fosse dovuta esclusivamente alla generosità dei Fugger e dei Welser , ma anche alle elargizioni delle maggiori famiglie mercantili genovesi, in primis i Grimaldi, poi i Lomellini, i Fornari, gli Spinola, i Pallavicino, i Vivaldi. Una lungimirante politica finanziaria in cui i settori pubblico e privato collaboravano armonicamente, fu all’origine della fortuna economica , politica e militare di quella Repubblica. Una classe dirigente saggia e onesta seppe trasformare la buona gestione quotidiana in rigoglio civile e sociale, mentre oggi avviene esattamente il contrario.

Se il proverbio dei nostri avi, “la storia è maestra di vita”, fosse ancora di moda, consiglierei non soltanto gli uomini di banca ma pure gl’imprenditori e i pubblici amministratori a studiare e meditare l’esempio citato. Supponendo tuttavia che costoro non ci pensino neppure, (diciamo col Giusti: ma il loro cervel, Dio lo riposi, a queste cose è morto e sotterrato) , mi permetto d’anticipare qualche conclusione.

La prima è che lo scopo del credito è porre il risparmio al servizio della produzione; la seconda che ciò va fatto sulla base dell’intelligenza e del merito; la terza è che il fisco , anziché giocare il ruolo d’intermediario fra il risparmio dei cittadini e il foraggiamento delle clientele dei politici, potrebbe fungere da garante , in misura ragionevole, dei prestiti erogati agli operatori più meritevoli. Questo sarebbe un modo intelligente di mettere i sacrifici dei contribuenti al servizio del bene comune.

Carlo Vivaldi-Forti