farageNigel Farage ha ottenuto la sua Brexit, ha vinto la sua guerra. Ora però si dimette dal suo partito, UKIP, che già nel nome (UK Indipendence Party) recita la tanto agognata -ed ora ottenuta- indipendenza. Resta a fare l’europarlamentare (e magari ai suoi detrattori, che lo accusano di “non rinunciare ai soldi dell’UE” bisognerebbe spiegare, su questo punto, che per quel ruolo Nigel è comunque stato eletto, e quei soldi appartengono al suo stipendio) e dai banchi dell’UE continua la sua battaglia… o meglio, non proprio. Non si è presentato nel suo posto tra il suo gruppo Efdd proprio nel giorno in cui si parlava di Brexit, ed è stato fischiato dagli europeisti. Europeisti che lui stesso ha sottilmente canzonato con “è così brutto… ora non ridete più.”   In effetti, più che ridere, Juncker, si gonfia di rabbia. E oggi sproloquia, assieme ai suoi (come il liberale olandese Guy Verhofstadt) con eufemismi che vanno dall’arcaico “antipatriottico” al più concreto “topi che abbandonano la nave.” Lontani, insomma, i tempi della democrazia tanto sbandierata dall’UE!

Si dimette Cameron, si dimette Farage. L’uno dalla presidenza dell’UK, l’altro dalla presidenza del proprio partito, che quell’UK ha guidato fuori dalla tanto odiata (e vessatoria) UE. C’è da chiedersi, ora, chi sarà il nuovo capo e da sperare che la Brexit non si risolva con lo stesso, tragicamente grigio finale dell’egemonia tebana, che, terminata con la morte (ora, contestualizzata, potrebbe essere la dimissione, il ritiro) dei capi Pelopida ed Epaminonda, rese vano il sogno di indipendenza di Tebe nei confronti dell’ormai dilagante ellenismo. Non che l’attuale globalizzazione europea sia da intendere assimilabile all’ellenismo, anzi. E nemmeno il suo specchio in negativo, no davvero. E’ molto peggio.

Chantal Fantuzzi