Andrea Felappi, 25 anni, di Balerna, nei mesi scorsi si è recato nei campi profughi in Grecia, senza altro scopo che quello di aiutare, per quanto possibile, chi si trova a vivere lì. Ci siamo fatti raccontare la sua esperienza e cosa lo ha motivato a partire.

Da dove è nata la tua idea di fare il volontario a Idomeni e negli altri campi profughi?

Sono entrato in contatto quasi per caso con l’Associazione Firdaus di Genestrerio, che è impegnata in questo senso, e ho chiesto se avrei potuto partire con loro. Una volta sul posto, abbiamo iniziato un progetto, nato spontaneamente ma che si sta rivelando sempre più importante per la quotidianità dei bambini e delle rispettive famiglie del campo di Kalachori. Questo progetto era inizialmente concepito come una sorta di scuola, ma in seguito l’abbiamo rinominato Happy Time, perché il suo scopo è far riconquistare ai giovanissimi quel senso di tranquillità e spensieratezza che dovrebbe appartenere loro.

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Quali erano i tuoi compiti una volta là? Di cosa ti sei occupato?

In realtà ero partito senza avere un’idea precisa; volevo semplicemente rendermi conto della situazione. Presto ho capito che qualunque piccolo gesto può essere d’aiuto. Ad esempio un giorno ho acquistato un mucchio di giocattoli per i bambini, per vederli ridere e nel tentativo di avvicinare il loro stile di vita a quanto sarebbe appropriato per la loro età. In un’altra occasione mi sono trovato a fare un censimento. Ho anche pulito tutto il campo, un gesto impegnativo e forte; mi ha fatto molto piacere che i rifugiati mi abbiano aiutato in questo compito.

Come sei riuscito a comunicare, nonostante la differenza di lingua?

Certo, la lingua è stata una difficoltà all’inizio e anche adesso conosco solo poche frasi in curdo. Tuttavia, in parte con il linguaggio dei gesti, in parte utilizzando traduttori on-line, siamo riusciti a comprenderci. Con i bambini è stato molto semplice, mi sono avvicinato a loro proponendo dei giochi, ad esempio stendendo un rotolo di carta a terra, in modo che tutti loro potessero disegnare contemporaneamente, oppure con la musica o con piccoli giochi di magia, tutte cose che creano empatia e fiducia, ma non richiedono una grande conoscenza della lingua. I ragazzi più grandi, inoltre, avevano in molti casi una discreta conoscenza dell’inglese, avendolo studiato a scuola in Siria prima che scoppiasse la guerra. La differenza linguistica secondo me è come un muro, nel senso che rappresenta un vero ostacolo, ma lo si può abbattere confrontandosi con il prossimo e stando insieme.

Quando tornerai in Grecia?

Se potessi farlo, tornerei già domani. I bambini si erano abituati alla mia presenza e ogni volta che uscivo dal campo si prendevano per mano formando una barriera per farmi rimanere. Tornerò là lunedì prossimo per una settimana, dopo di che non avrò la possibilità di essere con loro fino a dicembre. Spero che nel frattempo altri volontari si facciano avanti, per tentare con la nostra presenza di dare un senso di continuità e di normalità ai rifugiati, in particolare ai giovanissimi.

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Cosa porterai sempre con te di questa esperienza?

Ci sono ricordi indelebili; ho vissuto delle emozioni forti e conosciuto gente fantastica tra i volontari e i rifugiati. Ricorderò l’emozione provata leggendo la lettera di una bimba, che mi pregava di non tornare in Svizzera, perché per lei sono come un fratello. Soprattutto, ho imparato che basta fare poco per fare tantissimo e che un sorriso è una grandissima ricompensa.

Intervista a cura di Costanza Naguib