Mi chiamo Publio Orosio Vatreno, e questo non è che un frammento di una storia appena vissuta ma già divenuta leggenda, che i miei posteri narreranno ai loro figli, arricchendola, di volta in volta, di valore e coraggio e dimenticando per sempre il disonore che l’avvolge.

Quando avrò varcato il confine e mi sarò lasciato alle spalle queste folate di vento gelido, quando gli zoccoli del mio cavallo calpesteranno le dritte strade di Roma, allora sarò di nuovo a casa.
Nel frattempo non mi resta che pensare a quel piccolo spiraglio di luce, penetrato nel buio di quei giorni trascorsi in mezzo all’orrore.

Il ricordo del valore di Marco Ezio Aurelio perdurerebbe nei secoli, se questo grande comandante non avesse commesso l’errore di inoltrarsi nelle foreste di Caledonia.

Assieme a lui, sono morti atrocemente quasi tutti i miei compagni. Orrendi uomini semivestiti, dipinti di blu, ci hanno assalito, imprigionandoci nelle fitte foreste caledoni. Erano ovunque. Parevano essere fuoriusciti dall’Ade; impugnavano asce, con le quali decapitavano, a una velocità paurosa, tutti i Romani che cercavano invano difendersi. Altri avevano lance che, scagliate, trapassavano le nostre loriche come se fossero burro. Dovrei ritenermi un codardo, e lo sono, in fondo. Ma quando ho visto alcuni capi guerrieri perpetrare torture- talmente atroci che la pietà non mi permette di rievocare – a un ufficiale, a quel punto, sono fuggito. La gamba destra mi sanguinava copiosamente, avevo dolore ovunque, eppure, non so come, ebbi il coraggio di avanzare in quella foresta che odorava di sangue, e la fortuna di sfuggire a quegli orribili demoni.

Finché le forze me lo permisero, avanzai a stento per due giorni, alla fine, affamato, dolorante e stanchissimo, mi accasciai ai piedi di una grande quercia, pregando gli dei di portarmi nell’Ade prima che un qualche Pitta mi scorgesse. So di aver chiuso gli occhi, mentre le lacrime si mescolavano al sangue. Dopo questo non ricordo più nulla.

Non saprei dire quale dio benevolo mi abbia inviato una sorta di creatura fatata in mio aiuto. È la mia mente pragmatica di Romano che mi impedisce di attribuirle una natura esoterica, ma è il mio cuore che la imprime nella mia memoria come una fata.

Quando riaprii gli occhi, lei era seduta vicino a me e la gamba non mi sanguinava più.
Era una ragazza molto bella, ma aveva il viso deturpato da uno sfregio molto lungo. Era vestita di cenci e i suoi occhi erano velati di una tristezza infinita. Con degli stracci mi aveva fasciato la gamba dolorante, e con delle erbe profumate mi aveva tamponato le ferite.
Appena vide che mi ero svegliato, mi porse un trancio di carne. Lo trangugiai per la fame, ma il sapore era ripugnante.

Quando mi fui rimesso in forza, per quanto le mie condizioni me lo avessero consentito, lei mi aiutò ad alzarmi e mi condusse in un luogo piuttosto nascosto. Non sapendo come esprimersi, mi fece cenno di attendere. Mentre spariva nel bosco, mi chiesi come avesse potuto aiutarmi a sopravvivere, dal momento che io ero un Romano, indossavo la lorica, le caligae e l’indistinguibile tunica rossa. Seppur logoro, il mio abbigliamento faceva di me un perfetto invasore. Era così che ci chiamava la gente del posto. E d’altra parte aveva ragione. Cesare aveva sottomesso i Britanni, e noi avevamo rubato le loro terre e deportato i recalcitranti nel sud della Britannia, li avevamo costretti a lavorare nelle miniere Mendip.
Eravamo stati più che crudeli. Eppure quella giovane donna, pur sapendo tutte queste cose, mi aveva salvato. Probabilmente suo padre e suo fratello avevano ucciso i miei compagni, eppure lei era diversa da tutti. Quello sfregio che aveva sul volto mi fece pensare a lei come a una reietta, una strega, un’emarginata dal suo popolo. Ed infondo era una traditrice…

Quando la vidi tornare conducendo per le briglie un poni celtico, pensai che nessuno avesse un animo più puro del suo. E pur essendo diversa da me, figlia di barbari caledoni tatuati di blu, in fondo era uguale al modello di purezza in cui noi Romani credevamo.

Salii sul pony che mi aveva portato e a gesti mi chiese di seguirmi. Lei rifiutò più volte. Allora la salutai, promettendole, nella mia lingua, che sarei tornato, pur sapendo che non avrei mai più rimesso piede oltre il confine di Traiano. Una cosa era certa, però: non tutti i Pitti erano violenti, non tutti i Romani erano invasori. Forse potevo ritenermi uguale a quella ragazza, cosa però impossibile, visto che ella era di gran lunga migliore di me. Il suo ricordo sarebbe durato in eterno.

Ancor prima della mia partenza giungevano voci che il nuovo imperatore Adriano abbia intenzione di costruire un muro che separi per sempre la turbolenta Caledonia dalla civilizzata Britannia. Così farà.
Ma in fondo, anche se un confine può dividere, la memoria può unire, per sempre.
E ciò che agli occhi degli uomini sono differenze, agli occhi degli dei non sono che un confronto che ci eguaglia.

Nel 117 d. C., l’intera Nona Legione scomparve nel nulla. Nessuno ne ebbe più notizia.

Chantal Fantuzzi