Pubblicato nel CdT e riproposto con il consenso dell’Autore

Capisco come il tema non sia dei più allegri e stuzzicanti. E nemmeno di stagione, visto come siamo in periodo di carnevale. Il motivo però esiste anche perché legato a una certa attualità nostrana. La città di Lugano sarebbe in procinto di eliminare parecchie centinaia di tombe storiche dal suo cimitero a Cornaredo (vedi su laRegione del 2 febbraio scorso: «Se il riposo non è eterno», di Dino Stevanovic). Certo, dico io, di quei pochissimi personaggi che entrano a far parte della storia – sui miliardi di anni di vita del nostro pianeta – anche il loro ricordo un giorno svanirà nel nulla. Ma intanto i morti servono a far conoscere il passato ai vivi che ne hanno voluto conservare la memoria in vari modi, sull’arco dei millenni, dopo averli cremati, inumati, mummificati. Da alcune tribù «primitive» addirittura mangiati: «cannibalismo rituale». E presso certe popolazioni lasciati in pasto agli uccelli: nello spirito dei cicli della natura che nasce e poi muore, continuamente rigenerandosi.

Di molte civiltà, anche di un lontano passato, noi conosciamo la storia attraverso il culto che dedicavano i nostri antenati ai morti (piramidi, necropoli, pantheon, lapidi, sarcofaghi, steli, obelischi…). I nostri cimiteri nascono però solo a inizio Ottocento per decreto napoleonico: i morti avrebbero dovuto essere da quel momento seppelliti fuori dalle chiese, soprattutto per motivi igienico sanitari. Qualcosa di buono anche il corso ci ha lasciato.

La morte è innanzi tutto, per noi esseri umani – unica specie vivente sul pianeta consapevole della propria esistenza – , un tema che può oggi essere seriamente affrontato solo in chiave antropologica e culturale. Ma soprattutto da una posizione laica. Anche questa è cultura, cari amici luganesi. E non solo quella del LAC, e delle cadreghe…! Storia che ci rimanda all’Ottocento: secolo però fondamentale per capire il Ventesimo dei nostri padri, nonni e bisnonni. Le lapidi e i monumenti funebri nati in questo periodo, pur se carichi di un certo romanticismo retorico («I sepolcri del Foscolo») possono insegnarci ancora molte cose. Anche sul gusto estetico e lo stile, magari grondanti retorica di un mieloso romanticismo ed estetismo tipico un’epoca che ci ha da non molto lasciati (Fabio Soldini: «Parole di pietra». Se poi ci pensiamo bene, i cimiteri sono luoghi assurdi, e dell’assurdo. Dovrebbero ricordare i morti, ma in definitiva servono soprattutto per celebrare i vivi: soprattutto coloro che finanziariamente possono più facilmente permetterselo. La morte livella, ma i vivi riescono comunque sempre a tenere vive tra loro le distanze. Comunque i cimiteri rimangono ancora, anche se forse non per non molto, dei luoghi particolari, per alcuni sacri. Comunque dei luoghi. Mentre noi oggi viviamo sempre più in non luoghi: periferie anonime, quartieri disordinati composti da squallide villette, fabbriche abbandonate, magazzini in disuso, centri commerciali da compera–usa–getta (Marc Augé). E nel frattempo il kitsch sempre più imperversa, anche nei cimiteri. Con tanto di finti marmi lucidati a specchio, fiori artificiali più veri di quelli naturali, scritte in caratteri di plastica bene ab–bronzate. Per non parlare delle cassette che contengono le urne con la ceneri dei defunti: luoghi allucinanti anche per la loro anonima insignificanza. Specie di caveau bancari senza titoli né soldi. E tutto questo con il supporto dei servizi delle pompe funebri. Pompe da caro estintoche a me richiamano piuttosto quelle della benzina, o dei pompieri, per non dir altro.

In questi ultimi decenni di grandissimi cambiamenti sociali, anche il nostro rapporto concreto con la morte, e con i morti, è andato rapidissimamente modificandosi. Dall’inumazione si è rapidamente passati all’incinerazione dei cadaveri (cremazione mi sa troppo di pasticceria), anche per una diversa posizione venutasi nei confronti di quest’ultima pratica da parte della chiesa cattolica.

Forse tra non molto, in particolare per noi occidentali eredi di una cultura illuminista, i cimiteri cesseranno completamente di avere un loro senso, un loro scopo: quello per il ricovero dei resti umani, seppur per un provvisorio ricordo, legato al massimo a due o tre generazioni successive. Già oggi alcuni annunciano i cari estinti su internet. O si collegano con loro attraverso i social. Roba «de matt» – altro che «…aléghér» – nevvero Delio Tessa? Capisco. Quasi ogni essere umano sente un profondo bisogno di eternità.

Anche perché la vita – con la nascita e la morte – rimane per tutti il più grande mistero: incomprensibile e inaccettabile. Alcuni cercano di esorcizzarla, di elaborarla scrivendone, parlandone. Altri tentano di scacciarla in ogni modo dai loro pensieri. Ma costoro scacciano nel contempo anche il passato: il loro, e quello dei trapassati.

Platone ha detto: «Il popolo che non conosce il proprio passato non ha futuro». E qualcun altro, più recentemente, ha aggiunto: «Perdendo la memoria si perde l’affettività». Ho poi trovato in «La lotta mentale»,1986 di R. Luperini, questo passaggio: «Sta già venendo il tempo in cui occorrerà insegnare ai nostri figli che esistono i nonni, e i nonni dei nonni, che la storia esiste, è percorso e rottura, salto, cambiamento. È in discussione, attraverso l’attacco alla memoria, il concetto stesso di storia». Pensiamoci perciò bene – cari amici della Grande Lugano – prima di buttar via certe testimonianze. Conserviamone almeno parte di esse. Senza comunque farne dei musei: ce ne son già troppi, per troppe cose che stanno scomparendo. Ci mancherebbe che si realizzasse pure il Museo dei cimiteri.

Per collocare e conservare bene in vista questo nostro patrimonio storico sarebbe sufficiente uno spazio aperto, immerso nella natura, dove poter in silenzio – soli o in compagnia – qualche volta meditare tra terra e cielo. Comunque, buon carnevale a coloro che lo festeggiano; in attesa – per tutti – dell’ultima quaresima.

Orio Galli