Mood Light Juggler: intersezioni urbane di una metropoli o variopinti intrecci di linee della vita? È interessante srotolare il gomitolo della carriera di Franco Gervasio: dalla carriera di regista impegnato nel teatro e nel cinema (Torino, Parigi, Copenhagen, Istanbul) dove spettacoli, produzioni e performance si sono aggrovigliati in intricati ed espressive composizioni – la ricerca sulla luce nel contesto paesaggistico naturale e urbano, luci della città, percorsi. È curioso come questo giocoliere riesca a mantenere l’equilibrio su un filo di neon sottile tra le movimentate installazioni artistiche e statiche sculture luminose, trasmettendo un’espressiva dinamicità?

Numerose sono le tecniche che possono risultare necessarie al lavoro dell’artista per fermare le emozioni e le suggestioni: fotografia, diverse tecniche pittoriche, neon, performance teatrali sono infatti le arti che Franco Gervasio pratica fin dalla più giovane età; sempre tra loro connesse ed intrecciate. Laureato in regia con Luigi Squarzina, al DAMS di Bologna con il massimo dei voti, si dedica alla musica, teatro, televisione. Tra il 1980 e il 1986 vive e lavora a Parigi. Antoine Vitez lo chiama accanto a sé per le sue produzioni e per l’attività didattica dell’Ecole de Théâtre de Chaillot da lui creata e diretta.

Le arti visive cosi lo portano alla ricerca che si focalizza sempre di più sugli effetti della luce sul colore nel paesaggio. Allestisce, con una compagnia che fonda con alcuni amici, tre spettacoli dove la scenografia è costituita dalle proiezioni di dipinti e filmati. Senza mai voler né esporre, né vendere le proprie creazioni. Sarà solo nel 2007, la determinazione del curatore e critico turco Ahmet Gören, docente di fotografia e pittura all’Università di Istanbul, insieme alla decisa volontà del gallerista Dagan Ôsil, a convincerlo ad allestire la personale “Lights in Landscapes”, antologica propostagli dal curatore, dopo aver assistito alla performance Dreaming G, realizzata all’Istanbul Modern Museum of Modern Art e LA BIENNALE DI VENEZIA.

“…Il processo artistico retrostante a questo lavoro è complesso: l’artista ci ha svelato i suoi segreti, con il sorriso di chi sa che un conto è dire la tecnica, un altro è tradurla in opera d’arte. Il primo passo è quello del dipingere il paesaggio di luce: pochi segni essenziali costituiscono il progetto della scultura da realizzare in vetro e neon: in scala 1:1, l’artista definisce le linee nei colori puri dei gialli e degli ocra, nello squillare dei rossi e nella quiete dei verdi, nel respiro del blu e del rosa. Tracciate su carta, le linee diventano la traccia da seguire per realizzare le cannule di vetro colorato nelle quali far scorrere il gas neon. L’artista compie tutte le tappe: seguendo il disegno, soffia il vetro – antico mestiere sempre più raro e prezioso – per ottenere tubi sottili da comporre in un plastico abbraccio, fondendoli e assemblandoli l’uno con l’altro. Ottenuta la scultura di vetro, questa è completata con l’immissione del gas neon nei gangli di vetro colorato; infine, viene inserita nella teca, destinata a proteggerla e consegnarla al nostro sguardo, esaltandone le cromie luminose in un gioco di riflessi e ombre proiettate sulle pareti trasparenti, finemente molate e lucidate con una spazzola utilizzata solitamente per la lustratura degli specchi.

Il risultato è un’opera scultorea di raffinata bellezza, frutto di una grande ricerca estetica ma anche di una notevole maestria tecnica, aspetti sempre più rari nel panorama attuale, dove vige la regola che per fare scultura basta assemblare – o ammucchiare oggetti – in uno spazio, o ancora sperimentare materiali senza conoscerne le regole e le reazioni.

Il neon, carico della storia dell’arte tra XX e XXI secolo, si arricchisce nell’opera di Franco Gervasio di nuove potenzialità espressive: non evidenzia la frattura tra le parole e le cose, come nell’arte concettuale, né si inserisce nel dissidio tra il tempo della natura e quello dell’industria, tra mondo vegetale e animale e mondo tecnologico e produttivo, come nell’arte povera; non è luce che diventa ambiente o definisce lo spazio” – dice Ilaria Bignotti, storico dell’arte, critico e curatore indipendente.

arch. Maria Duborkina