Ho trovato questo testo profondo e commovente su LiberaTV e ho chiesto all’Autore il permesso di riproporlo ai miei lettori.

Sono stato in una casa per anziani a trovare una persona quasi novantenne, che conosco da una vita. Mentre nel passato questi incontri erano occasioni festose di conversazione sui fatti del passato e dell’attualità, sulle persone che abbiamo conosciuto e sul ruolo che ognuna di loro ha avuto, quest’ultimo è stato penoso, quasi doloroso.

Da qualche mese la persona visitata, ammalata oltre che vecchia, ha perso le capacità di ragionare e di esprimersi. Gli occhi chiusi, una lamentazione continua, una specie di invocazione al cielo, un susseguirsi di espressioni sconnesse. Mi sono fermato un quarto d’ora, in piedi davanti al letto e mi sono fatto delle domande.

Se non ci fossero state la medicina e le cure mediche odierne, questa persona sarebbe già morta. Lasciando agire la natura, senza interventi esterni, non ci sarebbe più. La sua vita, d’altro canto, è stata piena e operosa: ha utilizzato i talenti che le sono stati dati e li ha fatti fruttificare per sé e per gli altri.

 

Guardando in retrospettiva il cammino della vita, non tutto è sempre andato per il meglio. Alcuni errori si sarebbero potuti evitare. Altre cose avrebbero potuto essere fatte diversamente. Ma è un ragionamento che riguarda ognuno di noi e la partita è solo una; non ci è data l’occasione di ripeterla. Ora che le carte sono state giocate tutte, che senso ha trascinare penosamente un corpo che non è più una vita?

Il discorso è delicatissimo e può essere visto da diverse angolazioni. Contano la cultura, la formazione, la tradizione, la religione, il contesto famigliare e il momento storico. La vita appartiene a Dio, non all’uomo. Sì, ma questa è vita? No, non è più una vita. E allora per quale ragione prolungare le sofferenze di una persona a cui è venuta meno l’essenza di sé stessa, cioè la capacità di ragionare e di amare?

Pongo ovviamente solo delle domande, non so dare risposte né esprimere certezze. Ma non è un po’ comodo non porsi seriamente queste domande? Far finta di niente, che poi alla fine il problema si risolverà da solo? Non credo che guardare dall’altra parte sia giusto.

Piuttosto c’è da chiedersi seriamente se dal profilo umano e da quello cristiano non si debba cercare il bene del prossimo. Ma nel caso specifico qual è il bene del prossimo? Pongo la domanda quasi con trepidazione: di fronte al mistero della vita le nostre risposte sono sempre in qualche modo insufficienti. Di fronte a un momento che segna il confine tra la vita e la morte, solo l’umiltà e la consapevolezza dei nostri limiti possono forse suggerirci qualche preziosa riflessione. Magari qualche risposta ci può arrivare non tanto dalla dottrina, dalla filosofia o dalla teologia, ma dal cuore.

Mentre sto lasciando la camera con questi pensieri che mi frullano per la testa, incontro una giovane donna. Si tratta di un’infermiera non ancora ventenne, bella, con un sorriso splendente sul volto, che sta entrando nella stessa camera per avvicinarsi al letto dei lamenti. Si sarebbe occupata della persona giunta oramai alle ultime battute del cammino terreno. L’avrebbe nutrita, pulita, sistemata, avrebbe posato le sue mani morbide sul corpo macilento e lacrimevole dell’ammalata.

Per un momento mi fermo a osservare questo contrasto: da un lato un corpo consumato giunto oramai alle ultime battute, dall’altro un fiore di primavera splendente che si accosta sorridente e servizievole pronta a dare il suo aiuto. Ama il tuo prossimo come te stesso: così ci insegna il Vangelo. È quanto i miei occhi stavano osservando con commozione.

Armando Dadò