Pubblicato nel CdT e riproposto con il consenso dell’Autore

Con questo intrigante e ambiguo titolo è andato in onda domenica scorsa, 12 marzo, in «Storie» (RSI, LA2), un documentario di Michelangelo Gandolfi. Poco tempo fa la stessa RSI si era rivolta sul web per chiedere il parere ai suoi utenti proprio su questa trasmissione. Con quest’ultimo lavoro credo sia giunta l’occasione propizia per cercare di fare il punto su questo spazio dedicato alla cultura. Magari anche, se mi è concesso, con qualche punzecchiatura.

Tanto per iniziare vorrei dire che la RSI ha una lunga tradizione nel campo della documentaristica, in generale di ottima qualità. Con una scuola di bravi registi e realizzatori che risale ai primi anni della sua esistenza. Molti operatori come Soldini, Jäggli, Storni proveniente nel passato da una formazione classica nel campo delle arti visive. La scenografia dello studio di «Storie» fa però a pugni con certe premesse di qualità estetica che dovrebbero stare alla base di un genere di trasmissione come questa. Leggerezza, sobrietà, buona illuminazione, queste dovrebbero essere le condizioni essenziali, con pure una ergonomicamente corretta forma delle poltrone, per chi deve dialogare in studio. E non da incartato come un baccalà. Il «peso» delle emozioni arriverà semmai più tardi, con il documento filmato. E poi la grafica dei «generici», delle sigle, dei titoli e dei sottotitoli. A volte così scadente, se non addirittura illeggibile. E non solo in questo programma della RSI. Scelte che mortificano quella che è stata nel passato l’alta qualità svizzera in questo settore. Si noti l’attuale essenziale ottima grafica della RAI. Nessun paragone con la provinciale «immagine d’antenna» del nostro «massimo ente culturale».

Fatte le debite premesse veniamo quindi a «È bello ciò che piace». Un documentario simpaticamente ironico, almeno così io l’ho inteso. Ma pure con una bella dose di ambiguità, già a partire dal titolo. Mi chiedo quanti l’avranno capito. E in che modo parecchi avranno giudicato questo lavoro, o si saranno immedesimati in alcuni dei suoi protagonisti. Ammettiamo che questo non fosse l’obiettivo del regista. Regista fatto però poi entrare verso la fine della trasmissione – attraverso il web – in dialogo con il critico d’arte Achille Bonito Oliva presente in studio.

Malgrado tutto l’impegno e la buona volontà dalle conduttrice Rachele Porro qui si è raggiunta, secondo me, la massima confusione sull’estetica, e sull’etica. Tanto è vero che a un certo punto la scenografia dello studio è stata paragonata dal critico, – sicuramente con qualche buona ragione – all’accumulo degli oggetti appena visti nel documentario e realizzati dagli «artieri» così definiti da quel marpione dell’Achille. Quel «curator» che ha pure «inventato» la transavanguardia.

Insomma, un bonito capace anche di schivar da par suo l’oliva. Anche su alcune incalzanti domande postegli dalla bella e simpatica, anche se forse un po’ troppo ingessata Rachele. Certo, la cultura è fatta pure di queste cose. Ma un servizio pubblico che si rispetti dovrebbe anche cercare, almeno qualche volta, di chiarire le idee a chi magari – sul bello (ma soprattutto sul giusto!) – non ne ha punto o ne ha poche, e per di più confuse. Altro che kitsch. «Il sonno della ragione – diceva Goya – genera mostri». Da parte mia aggiungerei che, oggi, il sonno dell’estetica genera, sempre più sovente, anche certe, particolari «mostre».

Orio Galli