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Da un articolo di Ben Wright, pubblicato il 23 marzo sul sito del quotidiano britannico The Telegraph.

Fabbrica in Cina

“Martedì, le azioni hanno iniziato a scendere. Un calo che sembra essere stato causato dalle preoccupazioni attorno alla riforma dell’Obamacare. A preoccupare gli investitori non è l’Affordable Care Act, ma piuttosto il fatto che Trump avrà più difficoltà del previsto a mantenere le sue altre promesse. Ossia, la riduzione delle imposte, in cima alla lista di Wall Street, subito dietro gli investimenti nelle infrastrutture per dopare l’economia.

Una recente inchiesta di Bank of America Merrill Lynch ha evidenziato che solo il 10 % dei gestori pensano che Trump riesca a far passare la riforma della fiscalità al Congresso prima della fine dell’estate. L’ottimismo dei primi tempi della presidenza Trump sembra trasformarsi nella credenza più pragmatica che i suoi eccessi saranno contenuti dal suo proprio partito al Senato. Esiste la possibilità che gli sforzi atti a contenere l’agenda interna di Trump lo spingano a mettere da parte le sue ambizioni protezionistiche.

A Wall Street c’è preoccupazione. All’inizio di questo mese, Morgan Stanley ha pubblicato un rapporto riguardante i rischi del protezionismo per il settore tecnologico. Le società tecnologiche sono in prima linea di fronte a numerosi rischi. La maggior parte della fabbricazione di gadget usati a livello mondiale, anche quelli delle società americane, avviene in Asia. E’ d’altronde il motivo principale dell’enorme deficit commerciale degli Stati Uniti. Il fatto di sapere se è un problema oppure no è un dibattito complicato, ma Trump ritiene che sia un problema, dunque lo deve essere. La retorica di Trump è concepita per rimpatriare negli Stati Uniti la produzione e l’impiego industriale, che ritiene “siano persi”.

LG Electronics ha annunciato la costruzione di una fabbrica di apparecchiature domestiche negli Stati Uniti. Samsung pensa di costruire una nuova unità di produzione e di investire un miliardo di dollari nella sua fabbrica in Texas. Le aziende non possono fare molto di più, nemmeno le americane. Apple non può rimpatriare posti di lavoro che non sono mai esistiti negli Stati Uniti. L’iPhone è assemblato da due società, Foxconn e Pegatron, che contano 1 milione di impieghi in un unico sito, in Cina, il quale produce 200 milioni di telefoni all’anno. Come fa notare Morgan Stanley, è circa l’equivalente della popolazione di Cincinnati, Pittsburgh e Saint-Louis.

I lavoratori delle fabbriche americane guadagnano circa 33’000 $ all’anno, mentre i loro colleghi cinesi ne guadagnano 8’000 (e vivono nei dormitori delle enormi fabbriche, lavorando senza sosta per fornire in tempo i prodotti dei grandi lanci di Apple). Motorola ha provato a produrre il Moto X a Fort Worth, in Texas. Ma la fabbrica, che dava lavoro a 3’800 persone, ha chiuso e la produzione è stata delocalizzata in Cina nel 2013. Si stima che se Apple dovesse fabbricare l’iPhone negli Stati Uniti, il costo di vendita raddoppierebbe, ma questo aumento del 100 % sarebbe riservato unicamente agli americani. Trump ha suggerito barriere doganali del 45 % sulle importazioni cinesi e del 35 % su quelle dal Messico. Perchè questi paesi non farebbero la stessa cosa, imponendo diritti doganali aggiuntivi sui costosi iPhone made in the USA ?

Se il presidente Trump mette le sue minacce in esecuzione, Morgan Stanley afferma senza indugi cosa succederà : “Questo potrebbe degenerare in una guerra commerciale, il che complicherebbe l’invio e la vendita di prodotti all’estero e sfocerebbe in un forte declino delle esportazioni dell’Asia e in direzione degli Stati Uniti. Potremmo facilmente precipitare in una recessione mondiale.“