Pubblicato sul CdT e riproposto con il consenso dell’Autore

Desidero innanzi tutto precisare che non ho figli in età scolastica. Ho solo una nipotina che frequenta la seconda elementare e che oggi ha la testa e il corpo appassionatamente immersi nella pratica di alcuni sport e del disegno. Penso che ne ricavi grande soddisfazione. Quando poi dovrà cercarsi un lavoro io non sarò quasi sicuramente più della partita. Mi piacerebbe però sapere se a quel momento il lavoro occuperà ancora uno spazio fondamentale nella nostra società. Almeno come lo ha avuto ancora la mia generazione, e prima della mia moltissime altre. Comincio a dubitarne. Soprattutto dopo aver seguito quasi sino alla fine il dibattito su «La scuola che verrà» (LA2, «60 minuti», lunedì 3 aprile).

Dopo questa tediosissima (si può dire «patosa»?) trasmissione una cosa credo comunque di aver capito: che di lavoro ce ne sarà ancora tanto, ma forse solo per il corpo insegnante: la categoria dei docenti. Anche perché venendo il lavoro – materia prima – sempre più a scarseggiare si creeranno in continuazione sempre più scuole. Insomma, la società dovrà pur parcheggiare in qualche luogo così tanta gente disoccupata, sotto o male occupata.

Una volta le maestre e i maestri, forse troppo autoritari, erano però anche quasi sempre autorevoli. Così come autorevole era nel suo insieme la scuola. Ma oggi? Per chi l’avesse perso, consiglio di andar a vedere l’interessante documentario «Rivoluzione scuola» trasmesso da LA1 giovedì 30 marzo. Purtroppo tra le 22.30 e mezzanotte, orari impossibili soprattutto per le persone maggiormente interessate. Ma tant’è. Nemmeno più i mass media hanno conservato grande credibilità. Figuriamoci la politica, che dovrebbe stare alla base di tutta la nostra esistenza. Ricordate quando si affermava fino a non molto tempo fa, a mo’ di garanzia: «L’ha detto anche la radio», oppure «stava scritto sul giornale»? Non so quanti si rendano conto dei tempi che stiamo vivendo, e della loro drammaticità, soprattutto se proiettati nel futuro. Non credo proprio che sia sufficiente «innaffiare» come scriveva Michele Fazioli qualche tempo fa in uno dei suoi mini editoriali del sabato, sul «Giornale della Curia». «La crisi della carta stampata» titola dal suo canto Enrico Morresi una ben documentata pagina apparsa su Azione del 3 aprile scorso. Assolutamente da leggere. Ma i responsabili della scuola – Bertoli e Berger (BER&BER) si rendono conto di quanto sta oggi succedendo? O vivono in un mondo fuori dalla realtà, asettico e insonorizzato? E quelli del «maximo ente culturale» che sta sulla collina di Comano realizzano che tra un po’ non ci sarà più forse nemmeno la televisione, se non per dei vecchietti rimbambiti da psicofarmaci, poco udenti e ancor meno vedenti, accuditi in «case medicalizzate» da esotiche – ma non erotiche – badanti?

Nei cinquant’anni che ho interamente percorso con la mia attività professionale si è passati dalla tecnologia di Gutenberg dell’analogico del piombo (materico sostanziale) risalente alla metà del Quattrocento a quella del virtuale (numerico impalpabile) di fine Novecento-inizio Duemila. Che sia forse anche per questo che il «sistema» si è messo negli ultimi decenni a «dare i numeri»? I posti di lavoro, i mestieri persi, non saranno più recuperati o sostituiti se non in piccolissima parte, dalle nuove professioni nate con l’elettronica e l’informatica. Politici di ogni specie e natura, invece di giocherellare con il facebook, pensateci ogni tanto prima di addormentarvi.

Su «Il Sole 24 ore» di qualche domenica fa era riportato l’appello di circa 600 docenti accademici italiani che lamentavano una gravissima perdita di competenza linguistica, sintattica e ortografica, da parte delle ultime generazioni di studenti universitari (altro che tirar fuori dalla naftalina come fan certuni ancora don Milani). Perdita in parte causata anche dall’abbandono delle minime capacità grafico–manuali. Di quella calligrafia che si imparava una volta a scuola con penna e calamaio. Con il ’68 si è poi fatto strame di tutto. Oggi son solo i telefonini a farla da padrone con tutto ciò che gira loro attorno. Tra un po’ avremo questi marchingegni al polso, o sulla montatura degli occhiali; se non addirittura impiantati per mezzo di elettrodi direttamente nella nostra scatola cranica. E questo sarebbe «progresso»? Qui non si tratta di essere apocalittici o integrati. Qui sarebbe indispensabile cercar di ritrovare un minimo di quel «buon senso», di quel sano realismo andato purtroppo smarrito.

A cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, in questi ultimi tempi si son messi di nuovo a soffiare venti di tempesta. Cattivo segno? Bruttissimi segnali.

Orio Galli