Assemblea di Ticinomoda, 30 maggio 2017, LAC, Lugano

Relazione presidenziale

“Economicamente, sembriamo stare meglio. Politicamente stiamo peggio.”

Ci ritroviamo insieme dopo un anno. Lo facciamo in un clima buono tra le nostre aziende, ma in un clima generale, complessivo che non si è rasserenato.

Economicamente, il Ticino sembra stare meglio. C’è crescita, si creano posti di lavoro, la disoccupazione continua a diminuire. Non tutto naturalmente cresce: c’è chi è in affanno. Ma nell’insieme il segno è positivo. Politicamente, invece, stiamo peggio. Può sembrare un giudizio pesante, ma è la realtà: siamo bloccati dalla contrapposizione tra chi vede nell’apertura alla competizione un motore di crescita e di progresso sociale e culturale, da un lato, e chi, all’opposto, ha la ferrea convinzione che sia proprio quella l’origine e la causa dei problemi che permangono.

È un confronto che non è nuovo e che potrebbe e dovrebbe essere costruttivo. Invece, oggi è diventato quasi un muro contro muro, un dialogo fra sordi, fra opposte tifoserie. Uno scontro, dunque, in cui a soccombere è la forza della ragione, o, se concedete il termine visto che siamo nell’ambito della moda, l’eleganza della ragione. Politicamente parlando, siamo in una stagione poco elegante o forse per niente elegante. Il riferimento non è soltanto ai toni e ai modi di alcuni politici che occupano cariche importantissime a livello europeo e mondiale; non è nemmeno soltanto ai toni e ai modi di alcuni media che li criticano per partito preso: è anche alla piazza virtuale, alle reti sociali, dove il dress code è l’invettiva, è l’attacco alla persona, è il rancore sfogato senza ritegno, è l’insulto, non di rado la menzogna, troppo spesso la mancanza del minimo impegno di ricerca della verità. Uno spazio di straordinaria libertà da molte persone utilizzato malamente. La piazza virtuale diventa un’agorà incivile. Un angustiante ossimoro. Con la tentazione totalitaria che ne consegue. Ce ne parlerà forse Ernesto Galli della Loggia.

Paghiamo senz’altro, ancora oggi, i guasti causati dalla crisi della finanza internazionale nel 2007/2008 e da quella del sovraindebitamento degli Stati. Alcune democrazie pagano anche i casi di corruzione della politica: ma quelli c’erano, eccome, anche prima. Mani pulite in Italia risale a un quarto di secolo fa. E dunque non dovrebbe essere questa la causa principale dell’attuale disaffezione.

Per quanto riguarda gli imprenditori e le imprese, il problema di fondo è la crescente diffidenza o ostilità all’economia di mercato e al libero scambio. La globalizzazione, malgrado i benefici enormi portati negli ultimi 30/40 anni (la povertà nel mondo è diminuita in misura impressionante), non ha quasi più diritto di cittadinanza nel dibattito politico. Si dovrebbe provare, una volta, a quantificare i costi e che gli ostacoli alla libera impresa e al libero scambio causano in termini di mancata crescita e mancato benessere.

Torniamo al nostro Paese. Un’economia che sopporta ciò che è avvenuto sulla piazza finanziaria (non dimentichiamo i giorni drammatici per le nostre banche), che metabolizza l’abolizione del segreto bancario, che regge la forte valutazione del franco (certamente ricordate il cambio iniziale con l’euro a 1 e 60), è senza dubbio un’economia solida, competitiva, innovativa. Questo vale sul piano nazionale, ma vale ancor di più sul piano cantonale. L’economia ticinese è stata costruita su quei pilastri, il nostro benessere è dipeso molto da quei fattori: il nostro territorio, grazie a contingenze esterne e a meriti e capacità interni, ha saputo valorizzare e far fruttare la ricchezza che è giunta da fuori in cerca di un porto sicuro, di un contesto non depredatore.

Oggi alcuni di questi atout sono svaniti o sono stati fortemente ridimensionati. Eppure il Ticino si è sottratto al rischio della perdita di posizioni nel contesto delle regioni europee. E, anzi, ha guadagnato posizioni. Avrete certamente letto il recente studio realizzato dalle banche cantonali romande e dall’istituto CREA: il periodo 2000-2015 ha visto il Ticino conseguire risultati sorprendenti quanto a crescita complessiva e pro capite.

Tutto bene dunque? No. Lo constatiamo quasi ogni giorno. È un discorso che abbiamo già fatto anche in questa sede: la percezione molto diffusa è negativa. Abbiamo un’economia dinamica, che cresce, ma abbiamo una buona parte della popolazione che vede nero. O forse è meglio dire: che non vede questa crescita. Questo è il punto. Questa è l’equazione non risolta.

Com’è possibile che camminando in centro a Lugano o a Chiasso, guardandoci attorno, parlando con i commercianti, colloquiando con gli artigiani e piccoli imprenditori, ma anche parlando con gli amici, leggendo le lettere dei lettori sui giornali, si vedano situazioni e si raccolgano testimonianze che non confermano il dato, reale, misurato, della crescita? Perché, in altre parole, questo sviluppo – accertato, documentato – non si vede? Cosa ci sfugge?

Alcuni spiegano che la crescita è complessiva e che le difficoltà sono a macchia di leopardo. Certo anche questo fenomeno esiste, però una lettura solo in questo senso convince poco, perché nella percezione dominante non si vedono solo macchie nere di difficoltà in campo giallo, si vede un nero uniforme. La percezione che le cose vadano male è veramente diffusa.
Qual è allora l’arcano?

Forse questo è un campo d’indagine che richiede una chiave di lettura anche sociologica e non solo strettamente economica. Di certo nel malessere, nel timore e nel malcontento diffuso hanno un ruolo anche elementi non misurabili e non facilmente rilevabili, come l’identità, come l’identificazione del nostro Cantone, della sua uscita dalla povertà – a partire dagli anni cinquanta del novecento – e del nostro benessere con la piazza finanziaria, come la disillusione dalla grande illusione dei decenni scorsi che tutto fosse prevedibile e “gestibile”, come un sistema valori in rapido mutamento.

Ma non è questa la sede per affrontare questi temi.
Proviamo a formulare un’ipotesi nell’ambito dei mutamenti economici più misurabili: una spiegazione potrebbe stare nella galoppante digitalizzazione dell’economia. L’economia digitale sfugge molto di più ai nostri sensi, alla nostra percezione. Non si vede. Non la vediamo materialmente. Non la incontriamo passeggiando in città. Sta nella rete, dietro e dentro i nostri computer, tablet, cellulari, in quella dimensione che noi continuiamo a definire virtuale, anche se è molto reale e globale, pienamente immersa nel processo di produzione della ricchezza, degli scambi, delle opportunità di lavoro.

E’ uno sviluppo che voi e le vostre aziende conoscete molto bene e del quale vi state e ci stiamo – come Ticinomoda – occupando molto seriamente: in molti casi siete all’avanguardia. Ma non sempre e non tutti lo riconosciamo.

Facciamo un piccolissimo esempio al di fuori del nostro settore. Immaginate una enoteca in Europa. Se oggi entrate in un negozio che vende vini, vi trovate probabilmente poche persone. Eppure i vini si vendono e si comprano in grande quantità. La percezione visiva che possiamo avere dell’enoteca è ben diversa. Pochi clienti in carne ed ossa. Ma il vino continua a essere prodotto e a essere consumato. E continua a essere venduto e comprato: via Internet. La rete alimenta un processo economico che produce valore aggiunto con un’offerta che dà soddisfazione a una domanda sostenuta. I clienti nell’enoteca sono quasi svaniti. Non si vedono, ma ci sono: il commercio di vino è fiorente, perché il piacere di gustare una buona bottiglia di vino permane.

Il risultato complessivo non è un indietreggiamento economico: al contrario. Ma questa vitalità economica, fondata su un modo diverso di attuare lo scambio tra domanda e offerta o tra offerta e domanda, non è percepita, non è vista. La percepiscono certamente molte delle nostre aziende, forse la percepiamo sul lavoro, ma poi vediamo il negozio vuoto, con pochi clienti, clienti che passeggiano in centro

città senza sacchetti o scatole pieni di acquisti. E diciamo: c’è crisi; Ci chiediamo: dov’è la crescita? In questo caso la risposta è nella rete.
Potremmo fare molti altri esempi. Giungeremmo più o meno alla stessa conclusione. L’economia digitalizzata è questo. Non la vediamo in tutta la sua consistenza, ci sfugge, non la tocchiamo nella sua concretezza: è virtuale. E’ però un virtuale molto molto reale. Potremmo forse parlare della mano invisibile del mercato digitale.

È questa una spiegazione che può darci conto –almeno in parte – della discrepanza fra crescita reale e difficoltà percepita? Non abbiamo la verità in tasca. C’è un confronto democratico su questa cruciale questione. Un confronto purtroppo assai degenerato, che si combatte a colpi di verità e controverità o presunte tali. Vedete che qui sconfino nel tema che sarà affrontato dal nostro illustre ospite. Non vado quindi oltre. Però sarebbe molto interessante quantificare la quota dell’economia digitale nella ricchezza prodotta: quale percentuale del PIL dipende dalla rete? Pensiamo non solo ai beni e ai servizi acquistati online, ma a tutta la catena che questo nuovo modo di rispondere alla domanda dei consumatori, dei clienti, e questa nuova offerta comporta: servizi informatici, logistica, sicurezza, promozione, nuova domanda.

E le aziende della moda, come si collocano e come si muovono in questo contesto? Molti di voi sono all’avanguardia. Ma siamo, meglio siete, l’industria dell’eleganza che deve lavorare, produrre e commerciare in una stagione politicamente quasi priva di eleganza. Può sembrare una banalità, ma per un settore orientato alla globalità dei mercati, alla conquista o alla rincorsa dei gusti dei clienti al di là delle frontiere, lo spirito di apertura è una condizione quadro basilare. L’economia digitalizzata è incompatibile con le barriere protezionistiche. Il protezionismo non restituirebbe la visibilità dello scambio commerciale, non ridarebbe plasticità alla dinamica fra domanda e offerta. La potrebbe cancellare del tutto, farla fuggire altrove. Di qui l’obiettivo essenziale di recuperare una predisposizione più positiva, molto più positiva all’apertura competitiva. Il nostro settore richiede questo: un territorio accogliente e aperto. Non è, manzonianamente, “uno sfogo segreto”, “una confidenza domestica” contro il senso comune. E’ una delle verità che dobbiamo portare nel dibattito della nostra democrazia.

Ticinomoda lavora con voi per questo obiettivo. Il vostro contributo è concreto, misurabile, reale, non virtuale. Lo sapete: le imprese della moda in Ticino, quanto al PIL e al gettito fiscale, hanno oggi più o meno lo stesso peso delle banche negli anni d’oro. Vent’anni fa sarebbe stato inimmaginabile. Oggi – pur tra le difficoltà che molti percepiscono e attraversano – è la realtà. Una bella, elegante realtà.

Anche per questo motivo attendiamo con grande interesse i contenuti del pacchetto di alleggerimenti fiscali annunciato dal consigliere di Stato Christian Vitta, dopo il sì ticinese alla Riforma III delle imprese, bocciata invece sul piano nazionale. Da troppo tempo il riformismo fiscale è fermo al palo in Ticino. Per l’industria non è una buona cosa, per le aziende che esportano e sono confrontate col mercato globale lo è ancor meno. Occorre quindi una svolta, all’insegna del dinamismo, della creatività, del coraggio e dello spirito innovativo: tutte qualità che il settore della moda mette in pratica quotidianamente e che speriamo di rivedere presto all’opera anche nel settore fiscale.

Marina Masoni