Personalmente, da uomo di scienza e di pensiero, non ho mai dato peso alla cabala e alla maledizione dei numeri, ma ciò che è successo quest’anno, caratterizzato dal 17, potrebbe farmi ricredere. La stagione appena terminata colleziona infatti una serie impressionante di dati negativi, che già si erano evidenziati  nei mesi precedenti. Perfino la natura è sembrata contribuire allo sfascio generale con la quasi totale assenza di precipitazioni dopo gennaio, con uno degli inverni più caldi da un secolo a questa parte e una estate che ha assegnato all’Italia il triste primato di luogo più torrido del mondo, in barba al nostro tradizionale clima temperato e mediterraneo! A ciò si aggiungono le malefatte umane,  con il più alto numero d’incendi in Europa, tutti opera di mafiosi e terroristi, che il sistema politico incoraggia grazie alla totale assenza di presidio del territorio  e all’impunità per gli autori di questi delitti. Senza contare il Far West cui è ridotto il Paese, con sparatorie  e omicidi per la strada. La nostra penisola brucia , esattamente come alla caduta dell’impero romano, realtà attestata da tutti i cronisti dell’epoca; quanto alle invasioni barbariche, ogni paragone è superfluo.

Ciò che colpisce, tuttavia, e che mi rende molto pessimista sul futuro, è la completa rassegnazione del popolo italiano, che quale massimo segno di protesta si limita a disertare le urne e a ritirarsi da ogni partecipazione politica: rimedio peggiore del male, l’esatto contrario di quel che si dovrebbe fare. Ma da dove proviene questa patologica abulia, questa depressione collettiva? Come sociologo e storico  mi sono posto il problema. La mia convinzione , infatti, è che solamente la profonda conoscenza del passato  si rivela in grado di comprenderne gli errori, e tale ricerca è tanto più significativa oggi, quando molti prevedono un sostanziale cambio di direzione politica nel 2018.

Uno dei primi libri da me pubblicati sull’argomento s’intitola Le premesse erano diverse , ed. Logisma, Firenze 1997,  nel quale affronto la questione del declino italiano servendomi di memorie personali e familiari, dal 1950 in poi. A tal proposito vale la pena leggere alcuni passaggi  della splendida prefazione al mio lavoro del grande giornalista e scrittore fiorentino Enrico Nistri:

“ Appresi che Vivaldi-Forti stava scrivendo un libro di ricordi: ricordi non soltanto suoi personali, ma di una famiglia e di una generazione. La generazione che come lui aveva raggiunto la maturità- o meglio l’età dell’esame di maturità – alla vigilia della contestazione. Per l’esattezza in quel lontano 1966  che forse più del ’68 segna lo spartiacque fra due mondi, perché proprio in quell’anno in cui le acque dell’Arno sommergevano Firenze, nuove mode giovanili, nuove dissonanze  musicali, nuove dissolvenze cinematografiche, nuove alchimie politiche  iniziavano a far scricchiolare quanto di solido rimaneva anche in pieno centro-sinistra dell’Italia del centrismo  e della ricostruzione. Mantengo perciò la promessa di dare una introduzione  a questo libro. Una introduzione  all’introduzione. Perché un lavoro come ‘Le premesse erano diverse’ è, a pensarci bene, una introduzione esso stesso. Un amaro introibo alla crisi dell’Italia, alla lunga , brufolosa , decennale crisi puberale  di una prima repubblica passata dall’adolescenza alla senilità senza attraversare la giovinezza. Una introduzione alla nostra infelicità: l’infelicità di quei lontani anni Settanta, di quelle estati in cui una delle non minori attrattive del viaggiare all’estero era sentirsi lontani dal paese degli iniqui processi e degli equi canoni, da una nazione giunta allo sfascio, magari per odio al fascio, incapace ormai persino di coniare le monete da cinquecento Lire, tanto da lasciare spazio alla pratica fantasiosa e abusiva dei miniassegni”.

Nelle pagine dedicate agli anni Cinquanta, periodo della ricostruzione, sottolineo volentieri l’operosità , l’onestà, la devozione alla famiglia e all’impresa della generazione del miracolo , proseguite fino all’inizio del decennio successivo. Riconosco pure, con totale obiettività, i meriti della classe dirigente democristiana guidata da De Gasperi, uomo tutto d’un pezzo, di profonda fede politica e religiosa e di onestà fuori discussione. Rimpiango molto quel mondo, centrato sui valori tradizionali  del Lavoro, della Famiglia, di Dio e della Patria,  oltre alla semplicità dei costumi  di un’epoca caratterizzata dalla speranza incrollabile  derivata dall’ottimismo della volontà. Davvero non invidio, se non per ragioni anagrafiche , i miei concittadini che non l’hanno vissuta, in particolare i giovani, i quali spalancano gli occhi dalla meraviglia , leggendo queste pagine, per loro assai meno credibili di Pinocchio o delle favole di Perrault.

Muovendo da siffatte premesse, è difficile rendesi conto di come, vivente tuttora la generazione del primo dopoguerra ( sono vecchio, ma non Matusalemme!) si sia potuto così rapidamente  precipitare nell’abisso di vergogna, corruzione e schifo in cui oggi ci troviamo. Certo, i nostri nipoti non sono in grado di stabilire paragoni con i tempi appena ricordati, e forse è un bene, perché almeno non devono abbattersi  rammentando un mondo totalmente scomparso ; ma siamo poi veramente sicuri di ciò, visti lo scarsissimo valore che attribuiscono  alla vita , propria e altrui,  e lo sballo a base di droga, alcool, violenza e sesso, al quale ricorrono per non pensare al presente., e soprattutto per non immaginare un futuro che si prospetta  loro come una voragine senza fine, che minaccia d’inghiottirne i sogni, le speranze, la stessa esistenza?  Riflettere sulle cause vere e profonde di questo sfacelo è un dovere non soltanto per la nostra memoria personale e generazionale, ma anche verso chi domani  si troverà a gestire tale gravosissimo lascito, tale immenso disastro, nella speranza  pur remota che riesca a riparare l’enormità dei guasti ereditati.

Purtroppo, mano a mano che la fase eroica  della ricostruzione si allontanava  e le masse cominciavano a beneficiare di un tenore di vita più umano, iniziò a diffondersi , sopratutto fra i giovani, una mentalità di tipo nuovo, i cui pericoli non vennero compresi neppure  dai genitori più tradizionalisti e severi. Sempre più spesso, anche da parte dei figli d’imprenditori  e professionisti, si sentiva esprimere una netta preferenza per il posto fisso rispetto alla continuazione dell’industria, del commercio o della professione di famiglia. Poiché tutti intendevano accedere rapidamente e col minimo sforzo agli standard di vita del cosiddetto ceto privilegiato, sociologicamente assunto a gruppo di riferimento, il sistema più semplice per giungervi appariva l’indebitamento, cioè la firma di pacchi di cambiali a   favore di quelle ditte che non chiedevano di meglio, per allargare a dismisura la propria clientela.

Tutto si comprava così: l’automobile, il televisore, il frigorifero , la lavatrice e ben presto la casa. Il concetto di proprietà veniva sostituito da quello d’uso. E’ ovvio come ciò inducesse un senso generalizzato di provvisorietà e precarietà. Infatti, chi avrebbe potuto garantire a priori che saremmo stati capaci di onorare tutte le scadenze? Quello che era nostro oggi poteva non esserlo domani. Per questo iniziò la rincorsa  al posto fisso e il progressivo abbandono dello spirito d’impresa, in quanto solamente un reddito certo e costante avrebbe potuto assicurarci contro il rischio di perdere ciò che non avevamo ancora riscattato. Un boom economico fondato non sui dati della produzione reale, ma sulla precarietà dell’indebitamento, è all’origine della maggior parte delle distorsioni  intellettuali e morali di cui avrebbe sofferto in seguito la nostra società. Il relativismo etico e il crollo dei valori rappresentano la trasposizione ideologica o filosofica del senso del provvisorio che investì le masse popolari italiane.

Per lo stesso motivo emerse quella serie di piccole furbizie che all’inizio sembravano peccatucci veniali, ma che a lungo andare avrebbero minato e travolto le basi stesse della convivenza. Un padre di famiglia , che percepiva un reddito insufficiente a fronteggiare le rate dei beni acquistati, era fortemente tentato dall’arrotondamento del suo troppo misero stipendio. Così, se era un impiegato pubblico, cominciò a percepire piccoli regali in cambio della accelerazione di pratiche; se era un funzionario di banca cominciò a chiudere gli occhi sugli scarti di garanzia per l’erogazione dei fidi , in cambio di piccole mance; se insegnante, non disdegnava la promozione di qualche somaro ricevendone favori, e via elencando. Dapprima in sordina, poi sempre più  apertamente e sfacciatamente, si mise in moto la macchina diabolica della corruzione generale, con tutte le conseguenze che ben conosciamo.

Tale processo, ovviamente, non si compì alla fine degli anni Cinquanta. Anzi, in quel periodo esso era appena agli inizi, e soltanto le anime più sensibili avvertivano inconsciamente il pericolo. Per quanto non fosse ancora che un mucchietto di neve insignificante, la valanga che avrebbe prodotto i mostri che in seguito avremmo conosciuto, si era già staccata dalla vetta della montagna raccogliendo lungo il cammino, tra l’indifferenza generale,  ogni sorta di detriti che attirava come una calamita. Commenta Enrico Nistri:

“Segue poi un’epoca di rapide, forse troppo rapide trasformazioni, in cui alla paziente fatica della ricostruzione succede il primo impatto del decollo industriale. L’autore, accanto agli aspetti positivi, ne denuncia pure gli elementi corrosivi: il consumismo esasperato, il degrado urbanistico, gli scempi architettonici, il lento declino della morale pubblica e privata, il dilagare della corruzione, l’ascesa sociale di una gente nova priva non soltanto di senso dello Stato, ma anche di autentiche  virtù borghesi. Un’evoluzione che sarà formalizzata dal centro.-sinistra, accompagnato dalla crisi conciliare della Chiesa cattolica e preceduto da quella prima abdicazione dello Stato alla violenza di piazza che fu la caduta del governo Tambroni nel luglio 1960”.

Rievocando tutto ciò non pretendo certamente  di avere esaurito l’analisi delle cause che hanno condotto alla catastrofe attuale, ma di  avere offerto alcuni fondamentali spunti di riflessione, in particolare ai giovani, nella speranza che i dirigenti di domani provino almeno a riparare le conseguenze degli errori compiuti dalle generazioni precedenti.

Carlo Vivaldi-Forti