The Devil and Father Amorth, R. William Friedkin, Biennale Cinema Venezia, FUORI CONCORSO Sì, è proprio lui, il regista William Friedkin che ci ha terrificato tutti con il suo film del 1973 « L’Esorcista ».

E confessa che, quando girò il suo film, lui di esorcismi non ne aveva mai visti. Così quando, 45 anni dopo, viene in contatto con Padre Amorth, l’esorcista del Vaticano, per un’intervista su una rivista americana, ne approfitta per chiedergli il permesso di filmarlo durante un esorcismo vero. E Padre Amorth gli dice si. E nasce questo film-documento. Girato a Roma e nei dintorni, ci parla di ciò che per alcuni è realtà: essere posseduti dal demonio. Cristina, una signora con una vita normale, appena si trova in una chiesa, o quando Padre Amorth esegue il suo rituale, va in una specie di trance, la sua voce diventa gutturale e afferma di essere posseduta da Satana, le sue legioni, il suo esercito. E la sua forza fisica viene amplificata da queste presenze. Tre persone la devono tenere bloccata per contrastare i suoi spasmi aggressivi. Sudano, sono molto provati.

Intorno tutta la famiglia è in preghiera all’unisono con l’esorcista. Superstizioni? Esiste il male contrapposto al bene? Questo male si impossessa del nostro corpo fisico e lo domina? Per l’esorcista si, e sa come curare queste anime possedute. Poi, nel documentario, si interroga la scienza. Neurologi e psichiatri rilasciano le loro considerazioni. È senz’altro legato alle credenze religiose, sembrerebbe. In tutto il mondo, in tutte le religioni, comprese quelle animiste, esiste questa entità malefica, contrapposta a quella positiva e benevola, che si impossessa di alcune persone. Bisogna credere per essere posseduti? Anche la possessione è un credo, un rituale condiviso? Il film testimonia di questa esperienza, un viaggio esplorativo nel soprannaturale. Se esistono i diavoli, esistono gli angeli! Sono le ultime parole di questa esperienza vissuta per noi dal regista. E, per lui, mostrarcelo vuol dire farci riflettere, conoscerci meglio, testimoniare dell’esistenza del male. E ammettere che questo nostro mondo, questo nostro universo, ha molti misteri. O forse è semplicemente il nostro cervello, questo pezzo di carne che, se buttato lì su un tavolo è solamente un ammasso di tessuti, che ce li fa fantasticare? Vediamo colori, sentiamo parole, articoliamo discorsi, annusiamo profumi, amiamo, odiamo… Eppure è solo un pezzo di carne. Ma ci dà tutte le illusioni che vogliamo. Dio e Satana compresi.

The Insult, R. Zied Doueiri, Biennale Cinema Venezia, VENEZIA 74

Sinossi: Nell’odierna Beirut un insulto spinto agli estremi porta in tribunale Toni, un libanese cristiano, e Yasser, un profugo palestinese. Tra ferite nascoste e rivelazioni traumatiche, il circo mediatico che accompagna il caso porrà il Libano di fronte a una serie di disordini sociali che obbligheranno Toni e Yasser a riconsiderare la loro vita e i loro pregiudizi.

Un film sulla giustizia, quello che i protagonisti stanno cercando. E la ricerca della giustizia è anche una ricerca di dignità. « Le parole cambiano tutto » è la frase che aleggia su questo film dove gente normale cerca la pace in se stessa. Toni, il protagonista cristiano, a prima vista, si potrebbe definire uno xenofobo. Il palestinese Yasser, capomastro incaricato di mettere in regola i vari abusivismi nella costruzione dei palazzi abitati dai cristiani libanesi, si ritrova « innaffiato » da uno scarico d’acqua fuori norma della terrazza dell’appartamento di Toni. Il capomastro si presenta con la sua squadra per riparare lo scolo e rimetterlo a norma. Toni non apprezza che un palestinese se ne occupi. E distrugge il lavoro eseguito. Il palestinese, infuriato da questo atteggiamento provocatorio e insensato, lo insulta.

Sono solo parole, ma dietro al vissuto di Toni e Yasser vi è un astio viscerale che quell’insulto fa esplodere. Un astio tra cristiani libanesi e palestinesi fuggiti dai loro territori e insediatisi in Libano. Palestinesi che certi politicanti « populisti » tacciano di minaccia al benessere dei locali, incitano i cristiani all’odio della gente profuga rifugiatasi in Libano. Agli occhi di una certa politica, vengono visti come una « tribù » della quale avere paura, con diritti superiori a quelli dei locali, dicono. Con un’aura di simpatie da parte di ONG e organizzazioni umanitarie che, secondo loro, provocano distorsioni a favore di questi « arabi stranieri ». Visione che viene interamente assimilata da Toni. Un odio che si amplifica quando, davanti al giudice, in conclusione del processo per denuncia che ha intrapreso contro il palestinese Yasser, il giudice assolve Yasser.

Lui non perdona e vuole assolutamente che Yasser gli chieda scusa. E Yasser si avvia verso l’officina di Toni per farlo. Ma Toni, tuona verso Yasser: « Peccato che Ariel Sharon non vi abbia sterminati tutti! », parole che lo inducono a colpire con un pugno Toni, rompendogli due costole. Erano solo parole… Ma inizia un nuovo processo e i media si impossessano del caso. Toni un filo- ebreo? Yasser un violento palestinese? Il processo (il regista è figlio di magistrati e ha osservato bene gli ambienti del padre e qui si vede) permetterà di comprendere il perchè di questo astio profondo, sia di Toni verso i palestinesi (l’OLP, quando era piccolo, aveva fatto una strage nel suo paese, uccidendo civili inermi), sia di Yasser verso i cristiani libanesi che avevano fatto altrettanto nel suo paese. Libano, una nazione multiculturale, aperta a tutte le religioni, un territorio condiviso da arabi cristiani, musulmani e profughi. Ma basta un insulto per riaprire ferite mai rimarginate.

Un film che ci fa capire quanto il maschio, sempre, abbia il testosterone che guida impulsi aggressivi (se fossero state due donne, probabilmente il film non sarebbe nato) e che solamente dopo i pugni dati e ricevuti, riesce a trovare la via per la pace con se stesso. Un sorriso virile che rimargina scintille di odio e astio tra Toni e Yasser. Gente normale che si insulta, minaccia, si fa guerra. Proprio come tra vicini di casa. Ma qui i dintorni, il Libano, sono perennemente tesi e pronti a incendiarsi. E poi il maschio, finalmente, ragiona. Ed è la pace tanto ricercata. Dentro. Un film che è una bella lezione di vita, di intolleranza che si trasforma in inclusione, di odio che si può spegnere, conoscendosi.

Desio Rivera