UN CONTINENTE DALLE FRONTIERE SBAGLIATE

Su il Giornale del 15 ottobre 2017 è uscito un interessante articolo di Alain de Benoist intitolato L’Europa delle regioni cresce sulle macerie degli Stati delegittimati . Scrive l’autore:

“Nel contesto della globalizzazione c’è stata una accelerazione di questo processo. Da un lato gli Stati-nazioni  sono stati sopraffatti sia dall’alto, a causa della de-territorializzazione dei problemi e della confusione transnazionale degli interessi,  che dal basso, con la crescita di movimenti  indipendentisti o separatisti. E’ così emersa la teoria secondo la quale gli Stati-nazioni sono diventati troppo grandi per risolvere i piccoli problemi e troppo piccoli per affrontare i grandi. Dobbiamo avere il coraggio di capire che l’aspirazione  all’indipendenza è alimentata da un legittimo rifiuto  delle classi politiche nazionali corrotte che non hanno un vero progetto collettivo da proporre. Come in  Francia , dove ci sono molti francesi che non amano più la Francia, ci sono in Spagna degli spagnoli che non amano più la Spagna”.

Secondo de Benoist le attuali richieste di sempre maggiore autonomia da  parte di comuni, province e regioni, che talvolta sconfinano nella pretesa di totale indipendenza, deriverebbero da  una progressiva perdita di credibilità degli Stati nazionali, condotti alla rovina da ceti dirigenti corrotti e indegni del proprio ruolo. In linea di massima concordiamo con questa analisi, ma per giungere a conclusioni definitive occorre compiere un passo indietro e risalire alle origini storiche di questo diffuso separatismo. Nel titolo del presente contributo ho parlato dell’Europa come di un Continente dalle frontiere sbagliate, ma cosa significa ciò? Osserviamo quindi una carta geografica e cerchiamo di elencare, da  ovest a est, le diverse situazioni che giustificano tale definizione.

Iniziando dalle coste atlantiche troviamo subito una regione , soltanto in apparenza rassegnata alla sua appartenenza spagnola: la Galizia. Si tratta della prosecuzione settentrionale del Portogallo e infatti il  dialetto locale è molto più simile al lusitano che all’ispanico. Segue quindi la Navarra, congiunta all’Aragona per motivi dinastici  ma orgogliosissima del proprio passato e della propria cultura. Inutile parlare dei Baschi, ove l’indipendentismo si è manifestato a lungo  tramite il terrorismo dell’Eta , o quella Catalogna di cui sono piene le cronache, ove la lingua locale appartiene alla famiglia occitana, comune al mezzogiorno della Francia .

Quest’ultima , poi, gode della fama  di Stato unitario inossidabile ma , ove si esamini  meglio la questione, troviamo una realtà profondamente diversa. Le regioni del sud, Provenza compresa, sono state incorporate nella monarchia centrale in tempi assai recenti, nel XV secolo, mentre la grande penisola bretone, ove la popolazione è celtica, resta tuttora un grave problema per Parigi, con le sue dure rivendicazioni  autonomiste e bilinguiste. I territori nord-orientali appartengono poi alle Fiandre, tanto che vi si parla il fiammingo, in cui è espressa la stessa toponomastica. Il nome Dunkerque non è per esempio che la traduzione assonantica del toponimo olandese Duinkerk , ovvero la Chiesa  sulle dune. Proseguendo verso le Alpi troviamo la Lorena e l’Alsazia prevalentemente tedesche  ( Strasburgo non è che l’alemannica Burg an der Strasse) e, tra i confini svizzeri e italiani, la Savoia, fino al 1860 parte integrante del Regno di Sardegna. Per non parlare di Nizza, ligure dal punto di vista etnico, geografico e storico, con la strada panoramica ai piedi del castello che porta tuttora il genovesissimo nome di Rauba capeu, o Rubacappello, in omaggio al possente maestrale che vi spira e che fa volare i copricapi dei passanti. Sulla Corsica ci soffermeremo dopo.

Oltre Manica,  la Gran Bretagna sembra un altro Stato unitario al di sopra di ogni sospetto, ma la realtà è diversa. Non solamente scozzesi e inglesi rappresentano due popolazioni profondamente eterogenee, tanto che i primi hanno organizzato un recente referendum indipendentista, ma le stesse regioni dell’Irlanda del Nord , del Galles e della Cornovaglia hanno da lamentarsi per il trattamento di Londra. Il dirimpettaio Belgio è addirittura un caso di scuola per le tendenze separatiste. Il sottoscritto ne fu testimone diretto quando , anni fa, provò a rivolgersi in francese alla Reception di un hotel di Anversa, oltretutto a 5 stelle, e da un apparentemente benevolo portiere si sentì riprendere in tal modo: “Signore, qui potete esprimervi in qualsiasi lingua del mondo, compreso l’italiano, ma vi prego formalmente di non usare il francese, perché da noi ciò è ritenuto una provocazione”. Oppure frequentando la Biblioteca Reale di Bruxelles, ove dovrebbe regnare un perfetto bilinguismo, quando una scostante e poco collaborativa funzionaria divenne all’improvviso cordialissima e quasi si commosse al mio solo pronunciare quattro frasi in olandese!

La Germania, sappiamo, è uno Stato molto giovane, più o meno come l’Italia, e le differenze fra i Laender , anche sul piano linguistico, sono particolarmente accentuate, tanto che fino all’Ottocento non si sapeva ancora quale , fra i tanti patois tedeschi, sarebbe diventato lingua  nazionale. La Baviera, per esempio, si definisce ancora oggi Stato, mentre i confini con i paesi slavi  si sono sempre rivelati oggetto di contesa, tanto che la lotta per i Sudeti  e per Danzica scatenò la seconda guerra mondiale. La dissoluzione dell’Unione Sovietica, poi, ha dato vita a una serie di identità statali più o meno grandi, tutte interessate a rivendicazioni etniche  e storiche, quali le Repubbliche Baltiche, la Bielorussia, l’Ucraina , la Moldavia, che più tardi si sono a loro volta frantumate, come la guerra civile ucraina e il referendum secessionista della Crimea attestano.

Molte altre sarebbero le situazioni da considerare , ma queste bastano , giustificando ognuna la definizione di Europa come Continente dalle frontiere sbagliate, ma a cosa sono dovuti tali errori? In merito, citiamo due esempi che ci riguardano da vicino: la Toscana e la Corsica. Nell’alto Medioevo, la prima era formata esclusivamente da liberi comuni, vere e proprie Città-Stato  che si  autogovernavano  a somiglianza della polis greca, perfettamente sovrane e con classi dirigenti tratte dalla più qualificata cittadinanzale.  Ben presto, con lo sviluppo economico e l’aprirsi dei mercati, si scatenarono lotte fra loro, miranti alla conquista delle grandi vie di comunicazione, delle terre più fertili, dei luoghi in prossimità  dei principali fiumi, idonei alla costruzione delle preziose fabbriche andanti ad acqua: in pratica una guerra di tutti contro tutti  dal sapore hobbesiano.

Ciò durò fino a quando uno di questi comuni, Firenze, s’impose sui propri vicini grazie all’egemonia dei Medici, potentissima stirpe di mercanti e banchieri. La Città del Giglio, in una serie di sanguinosissime guerre di conquista, s’impadronì una dopo l’altra di quelle libere repubbliche, iniziando dalle più vicine  per poi attaccare le più remote. Nell’arco di circa un secolo tutte le città della regione furono sottomesse e annesse al Granducato: Arezzo, Prato, Pistoia, Pisa, Grosseto e per ultima Siena, che avanti di arrendersi vendé cara la pelle. L’unica che i fiorentini non riuscirono a conquistare fu Lucca, potentissima per pecunia e milizia, la quale mantenne l’indipendenza fin quasi all’Unità d’Italia, tanto che durante il Risorgimento vi circolava un famoso detto: “Italiani sì, toscani mai”. Giudicata retrospettivamente la formazione della Toscana moderna, dobbiamo riconoscere che nessuna delle popolazioni interessate aveva optato di farne parte per libera scelta, ma tutte vi erano state costrette dalla superiorità dell’esercito fiorentino. Così si spiegano le incomprensioni  e le invidie che hanno sempre caratterizzato i loro rapporti e che oggi sono sbrigativamente ricondotte sotto il generico termine di campanilismo. Ma le divisioni fra un centro e l’altro vanno ben oltre, basti pensare alle notevoli differenze fra i dialetti, che tuttora permettono di stabilire a colpo sicuro le rispettive origini.

Ancor più significativo il destino della Corsica, geograficamente, storicamente, etnicamente italianissima, ma che essendosi posta in perenne contrasto con Genova , sua dominatrice, fu da quest’ultima ceduta al re di Francia per un prezzo fra l’altro irrisorio. Quando l’esercito  francese sbarcò per prenderne possesso, i patrioti còrsi, guidati dal mitico eroe Pasquale Paoli, opposero una disperata resistenza reclamando l’indipendenza della regione ma, abbandonati dalla madrepatria italiana, furono infine disfatti, subendo gravissime perdite. Da allora la Corsica ha sempre rappresentato  una spina nel fianco della Francia, e la battaglia indipendentista, talvolta mascherata da semplice richiesta di autonomia, talaltra accompagnata da violenti attentati, non ha mai visto la fine.

Le osservazioni su Toscana e Corsica, mutatis mutandis, potrebbero valere anche per diverse contrade italiane e per la maggior parte di quelle  europee. Gli Stati unitari del nostro Continente si sono  invariabilmente formati a seguito di campagne militari, annessioni frutto di vittorie, dinastie egemoni e dinastie scomparse, trasferimento e deportazione forzata di popolazioni intere senza minimamente tener conto della loro volontà, in un  continuum storico che dal Medioevo giunge all’epoca contemporanea. Ecco da cosa derivano i confini sbagliati, che ignorano quasi sempre le specificità dei territori di riferimento. Queste sono le basi oggettive a cui si richiamano i movimenti indipendentisti e  autonomisti attuali. La domanda che ci poniamo, al termine di questo veloce excursus, è per quali motivi le rivendicazioni territoriali esplodano proprio adesso, in presenza di una Europa formalmente unita  dai vari trattati internazionali, ma in realtà divisa come poche volte in passato.

La verità è che il declino del nostro Continente, accompagnato da una spaventosa crisi etica e culturale ancor prima che economica, è stato causato dallo svuotamento dall’interno  della democrazia, ridotta in pratica a semplice simulacro, ad opera della criminalità finanziaria  globale egemone, che si è comprata la fedeltà di partiti, sindacati, parlamenti e governi, sia a livello nazionale che comunitario, complici classi politiche inette e corrotte, sempre pronte a vendere i propri affermati ideali in cambio di posti e prebende. Gli scandali che quotidianamente scoppiano ovunque ne rendono ampia testimonianza.

La lettura che do  alle riacutizzate spinte autonomiste e indipendentiste è pertanto la seguente: esse rappresentano un tentativo, sia pure maldestro e quasi sempre velleitario ( che spesso ottiene il risultato di rafforzare anziché indebolire le mafie di potere) per riappropriarsi, da parte dei cittadini , della sovranità  loro concessa e poi sottratta dagli Stati , mediante il loro smembramento. E’ questa una risposta efficace che guarda al futuro? Personalmente ritengo di no, anche se spesso tali rivendicazioni, come abbiamo visto, poggiano su fondamenta inoppugnabili. Il rimedio però  è un altro. La riappropriazione della sovranità perduta, anziché attraverso una riduzione dei problemi  alle piccole patrie, passa attraverso il cambiamento istituzionale  di quelle grandi, nel senso di garantire una effettiva partecipazione  di ciascun cittadino all’andamento della cosa pubblica tramite nuove e coraggiose forme di autogoverno. L’ideale della polis tornerà a vivere non spezzettando gli Stati unitari, perché anzi i poteri forti avrebbero ancor maggiore facilità di dominio su quelli regionali, ma riconoscendo che in tutte le forme statuali, grandi o piccole, deve mutare alla radice la vecchia filosofia politica, prendendo atto che la democrazia rappresentativa è defunta , e sulle sue ceneri   ne dovrà nascere una diversa , integralmente partecipativa, il solo modo di restituire al cittadino la propria autentica capacità decisionale.

Carlo Vivaldi-Forti