WISH YOU WERE HERE   VORREI CHE TU FOSSI QUI   Sergio Roic, scrittore svizzero-croato-serbo, ha pubblicato il suo nuovo romanzo, una fatica di cinque anni. Ce lo illustra e ce lo spiega oggi in una poderosa intervista, ricchissima, concessa a Francesco De Maria.

Francesco De Maria  Qual è stata l’idea primigenia da cui si è sviluppata l’opera?

Sergio Roic  Ricordo che l’amico scrittore Tommaso Soldini mi chiese un racconto per una rivista. Proprio in quel periodo mi capitò di aspettare il treno locale per Lugano alla stazione di Faido. Dalla radiolina di un altro passeggero uscirono le note di ‘Wish you were here’, la canzone dei Pink Floyd. Pensai a un racconto in sintonia con la canzone, poi, col tempo, combinando e ricombinando, ecco che arrivai al romanzo vero e proprio.

Quanto tempo ha preso la “gestazione”? Quanto la scrittura vera e propria?

Beh, in tutto ci ho messo circa cinque anni a scrivere il romanzo. Il mio metodo consiste nel trovare un tema centrale per poi svilupparlo in varie strisce narrative. In questo caso, una striscia, quella che racconta della nascita dei gruppi umani come li contempliamo oggi l’avevo ben chiara in mente. Intrecciare la nascita del linguaggio umano al principio antropico e al punto omega di Teilhard de Chardin ha richiesto molto tempo ma anche molta soddisfazione quando tutto ha cominciato a funzionare come un insieme. In definitiva, la gestazione dell’opera procedeva man mano che avanzava la scrittura. Avendo avuto qualche ripensamento, sono intervenuto su alcune parti già scritte.

Il suo romanzo ha una struttura complessa e articolata, con molte andate e ritorni. Potrebbe descrivercela nell’essenziale?

Le strisce narrative sono tre nella prima parte del romanzo. Si tratta di ‘L’artista’, ambientata 35.000 anni fa e che ha per protagonisti l’artista della tribù degli uomini e Argentea, di ‘Il principio antropico’, che abbraccia all’incirca gli ultimi 50 anni e che narra la vita dell’antropologa americana Rosa Rogers, e di ‘Avere un padre’, che si svolge anch’essa all’incirca tra gli anni Sessanta ed oggi e che segue le orme del cercatore della memoria collettiva, il dalmata Miloš Ostojić. A metà romanzo c’è un intermezzo con i sogni del filosofo greco Platone, i geniali vaneggiamenti musicali del leader dei Pink Floyd Syd Barrett e i tormenti del regista Michelangelo Antonioni sul punto di girare il film ‘Zabriskie Point’. A metà romanzo si spiega anche che cos’è il punto omega di Teilhard de Chardin. La seconda metà è caratterizzata dalle due strisce ‘Anima’ e ‘Omega’. Il tutto a prima vista potrebbe apparire piuttosto complicato, in realtà il lettore procede incontrando personaggi presenti in varie strisce e temi e racconti che si intrecciano, si compenetrano e si richiamano l’un l’altro. Le andate e ritorni si riferiscono alla funzione della memoria umana che, appunto, fra il procedere in avanti e all’indietro forgia il nostro io, la nostra storia, insomma, ciò che di noi fa degli esseri intelligenti in grado di ricordare chi e ciò che ci ha preceduto. All’inizio di ogni capitolo c’è una citazione-pensiero dei cinquantacinque pensatori-scrittori (Platone, Aristotele, Parmenide, Buddha, Proust, Rimbaud, Keats, Freud, Heidegger, Minsky, Marx…) che ho scelto per rappresentare il pensiero dell’uomo o, come direbbe Marvin Minsky, la società delle sue menti. Se qualcuno si vuol trastullare a indovinare quale citazione appartiene a chi, è naturalmente libero di farlo.

Secondo lei un lettore “normale” (intendo dire: non particolarmente colto) può comprendere il libro? Soprattutto se non sa nulla di filosofia…

Sì, senz’altro, la giornalista e scrittrice Monica Giovannini che ha presentato il romanzo al festival portoceresiano ‘Libri al lago’ si è avvicinata al libro con una certa circospezione, ma poi è stata davvero brava a condurre l’intervista-presentazione. Credo che il procedere nella lettura porti in qualche modo il lettore a sprofondare nel romanzo, nei suoi temi, fra i suoi personaggi. Se persiste, si ritroverà a dialogare con i protagonisti, i loro crucci e i loro pensieri. I ‘principi’ presenti, quello antropico, quello del punto omega e alcuni capisaldi platonici diventano comprensibili dato che vengono vissuti e fatti propri dagli stessi personaggi. Bisogna naturalmente avere un po’ di pazienza e tempo a disposizione, dal canto mio posso dire di aver compreso meglio anch’io certe tematiche adattandole alla forma narrativa, ad esempio la nascita del libro-monumento ‘Il principio antropico’ scritto da Tipler e Barrow: li immagino all’opera in una fattoria toscana, dialoganti e dibattenti finché alla fine fanno propria l’argomentazione rendendola del tutto chiara.

All’inizio, nel punto più lontano nel tempo. Chi sono l’Albino e Argentea? In che cosa differiscono? Che cosa faranno insieme?

L’Albino, ovvero l’artista della tribù degli uomini, riunisce in un unico personaggio i nostri antenati che hanno ‘inventato’ il linguaggio. Si tratta di un ragazzo che non sopporta il sole e che chiude la fila nel lungo viaggio che i Sapiens, i nostri predecessori ancestrali, hanno compiuto fino in Europa. Viene trasportato sulle spalle dell’ultimo dei camminatori e guarda a ritroso il cammino percorso. Deve ricordarlo affinché sia possibile ripercorrerlo nel caso la tribù sia costretta a tornare indietro. Per ricordarlo inventa le prime parole del linguaggio. Immagino che queste parole siano state: cumulo, tumulo, arco, asta, anca, alza, nero, turgido, lento, alto, libero, simile, rivolto a, ruvido, rinato, impossibile, sacrificio, superato, grande, aggirare, sospendere, pericolo, veloce, prateria, percorrere, tipo, caratteristica, tondo, caldo, rito, vibrante, molto, chiuso, aperto, tavoliere, sguardo, in punta di piedi stavo sopra una piccola collina, ciò che so è ciò che vedo. L’ultima frase è del poeta John Keats, che assurge al ruolo di personaggio che innerva il romanzo con la sua poesia-filosofia ‘in cammino’. Su un flauto d’osso l’Albino suona la melodia che sarà fatta propria dai Pink Floyd, ‘Wish you were here’, cinque ritmi in avanti, tre indietro, cinque passi a sinistra, tre a destra, cinque note in su, tre in giù, insomma, il ritmo del viaggio. Argentea, invece, è una ragazza Neanderthal, rossa di capelli e in perfetta sintonia con la natura, al punto da permettersi di guidare all’attacco un branco di lupi. Argentea, come tutti i Neanderthal d’altronde, a differenza dei Sapiens non parla. Stando accanto all’Albino sarà la prima a imparare il linguaggio umano. L’Albino e Argentea si uniranno e avranno dei figli, cosa plausibile se si pensa che il nostro DNA di Sapiens moderni contiene all’incirca dal 2 al 4% di elemento Neanderthal.

35000 anni fa i Neanderthal si distinguevano dai Sapiens. Quali le caratteristiche degli uni e degli altri?

I Neanderthal sono, se proprio vogliamo, i veri ariani europei, ovvero i primi antropomorfi ad aver vissuto nel continente. Possenti per resistere al freddo intenso della loro epoca erano tuttavia altruisti e compassionevoli con i propri simili formando piccoli gruppi del tutto autonomi di circa 15-20 persone. Vivendo fra i ghiacci, erano pallidi e avevano i capelli rossi. Soccombettero all’arrivo dei Sapiens, più individualisti, più evoluti dal punto di vista del linguaggio, forse semplicemente più fantasiosi e malleabili. Se ci siano stati veri e propri scontri fra di loro, se i Sapiens, come adombro nel romanzo, abbiano portato malattie incurabili da parte dei Neanderthal contagiandoli o se, come spesso succede, una specie anche di poco più adatta a un ambiente abbia riempito tutte le sue nicchie, non ci è dato ancora di sapere: da tutto ciò deriva il ‘mistero’ sull’improvvisa scomparsa dei Neanderthal, avvenuta appunto circa 35.000 anni fa.

L’uomo moderno discende dagli uni o dagli altri? O da tutti?

Gli antropologi non sono unanimi, ma parecchi di loro sostengono che l’incrocio tra Neanderthal e Sapiens sia avvenuto davvero, fede ne fa, appunto, la percentuale di DNA che condividiamo tuttora con gli esseri della specie estinta.

Perché 35.000 anni fa? Perché non 5000 ? Perché non 100.000 ? C’è una ragione specifica?

Una delle parti del romanzo è ambientata 35.000 mila anni fa proprio perché a quel tempo gli ultimi Neanderthal popolavano ancora alcuni territori del continente. Lì e allora è avvenuto il contatto e, come descrivo nel romanzo, il popolo dell’UNO vissuto e condiviso con la natura, i Neanderthal, ha incontrato il popolo del DUE, i Sapiens, già in grado di distinguere il soggetto (la propria individualità, il proprio io) dall’oggetto, ovvero le cose e gli esseri del mondo che lo circondano”.

Il libro si snoda tra i -35.000 anni e il presente o il quasi-presente. Perché non appaiono epoche intermedie?

Ritengo che l’epoca in cui è avvenuto il contatto fra le due specie sia stata particolarmente significativa. Da quel punto in poi i Sapiens hanno avuto campo libero per sviluppare tutte le loro notevoli potenzialità, innanzitutto quelle legate al linguaggio, e cioè quelle relazionali. L’antropologo francese Leroi-Gourhan, che cito nel romanzo, ha definito l’uomo in base a due sue caratteristiche: il gesto (della mano) e la parola (pronunciata). Senza queste due caratteristiche maggiori, saremmo magari qualcos’altro, ma certo non uomini. È poi perlopiù nel presente che gli studi e le esplorazioni degli esseri ancestrali sono stati perfezionati permettendoci una discreta comprensione della vita di allora. Confido, quindi, che il legame tra le due epoche possa essere stabilito efficacemente mettendole direttamente in relazione.

In un certo senso il suo è il romanzo del Tempo. Ma che cos’è il Tempo, saprebbe definirlo?

Sì, certo, questo è un romanzo sul Tempo. Oggi il Tempo è definito dai fisici in relazione allo Spazio consolidando quindi, dopo Einstein, la teoria dello Spazio-Tempo quale quarta dimensione necessaria a spiegare i vari campi di forze che caratterizzano la realtà (magari invisibile al nostro occhio imperfetto, ma ben presente e misurabile). Da un punto di vista più consono alla filosofia o, perché no?, alla storia, il Tempo non è altro se non la memoria, ovvero quel grande serbatoio di esperienza e crescita intellettuale che ha forgiato la specie umana. Senza memoria non saremmo umani, senza umanità, in senso etico, probabilmente non ci importerebbe granché della memoria. In ogni caso, sono proprio gli scienziati, oggi, a rivendicare la per certi versi davvero grandiosa e profondissima ‘memoria collettiva’ che permetterebbe a ognuno di noi di ‘cadere’ con la mente in un passato ancestrale ritornando al qui e oggi con doni inestimabili quali i simboli ancestrali, le antiche usanze e le fondamenta della condivisione e della solidarietà umana, ovvero i migliori modi, se si dà ragione agli etologi, per procrastinare la specie in un orizzonte di difesa e collaborazione con i propri simili.

A caccia di spiegazioni fondamentali. Che cos’è il principio antropico?

ll principio antropico, secondo colui che l’ha formalizzato nel 1973, ovvero Brandon Carter, e secondo i fisici Tipler e Barrow che lo riformularono a metà degli anni ’80, consta di due formulazioni: secondo il ‘principio antropico forte’ la presenza di un’intelligenza come quella umana nell’universo dimostra che l’universo stesso dev’essere tale da permettere l’esistenza di osservatori (intelligenti) all’interno di esso, mentre secondo quello ‘debole’ dobbiamo tenere presente che la nostra posizione di esseri (intelligenti) è necessariamente privilegiata, in quanto essa coincide con la nostra esistenza di osservatori. Tipler e Barrow hanno poi insistito nel formulare il ‘principio antropico ultimo’ secondo il quale un’elaborazione intelligente dell’informazione deve necessariamente svilupparsi all’interno dell’universo; una volta apparsa, essa non si estinguerà mai. Secondo Tipler e Barrow, insomma, se non proprio gli uomini, almeno l’intelligenza di estrazione umana dovrebbe risultare immortale. A questo tipo di ragionamenti si riallaccia l’intuizione geniale di Teilhard de Chardin, prelato cattolico che ha proposto un Dio non più creatore e responsabile della nascita dell’universo e del genere umano ma punto finale (punto omega) di perfezionamento dell’universo che pian piano si sarebbe trasformato dalla materia in idea. Un ragionamento simile mi ha affascinato dal primo momento in cui l’ho incontrato giacché è molto platonico e pure molto ‘progressivo’: la perfezione si raggiunge attraverso un lunghissimo processo ma essa non sussiste affatto all’inizio di questo processo.

Che cos’è la memoria collettiva?

La memoria collettiva è ciò che tutta la specie è in grado di ricordare a proposito del suo passato ancestrale. È come se ogni individuo umano fosse in grado di ricostruire il passato dell’intera compagine umana. Ma non solo, sembra che siamo in grado, crescendo dall’infanzia verso l’età adulta, di ripercorrere tutto il processo dell’evoluzione animale avvenuta sul pianeta. In un certo senso, anche le caratteristiche dei pesci, degli anfibi, dei primati e poi dei mammiferi sono contenute in ciascun individuo umano come ‘prova’ dell’evoluzione verificatasi attraverso tutti questi stadi evolutivi. Per dirlo in modo semplice, noi siamo la nostra evoluzione e ne conserviamo alcune vestigia sia nel nostro comportamento che nella nostra biologia: tutto ciò può venire alla luce, assieme al comportamento prettamente umano e alla nostra preistoria e storia, attraverso la memoria collettiva.

Che cos’è l’elefante meridionale?

L’elefante meridionale, progenitore dell’elefante attuale, popolava all’epoca dell’incontro tra Sapiens e Neanderthal l’Europa e l’Asia Minore. Si trattava di un essere gigantesco che nel romanzo viene dipinto come il primo archetipo della memoria collettiva riguardante l’uomo e il suo ambiente naturale. Nel romanzo si immagina che Marvin Minsky, il teorizzatore della società della mente e uno dei padri dell’intelligenza artificiale, tenga una conferenza a Los Angeles chiedendo al pubblico presente di disegnare la prima forma vivente che viene associata all’essere umano ma che non sia l’uomo stesso: tutti i presenti, in quanto latori della memoria collettiva, disegnano lo stesso essere, ovvero l’elefante meridionale che aveva colpito i nostri antenati a causa della sua ‘gigantezza’ tanto da essere identificato nell’’animale grande’ che aveva convissuto con i primi uomini in grado di descriverlo e ricordarlo.

Quali sono i personaggi e gli eventi fondamentali del quasi-presente?

I personaggi sono Rosa Rogers, l’antropologa americana che studia le abitudini dei Neanderthal e che si occupa del principio antropico, il zaratino Miloš Ostojić che si pone alla ricerca del misterioso padre, un albino che ‘parlava’ con gli animali e combatteva i tedeschi occupatori durante la guerra con tattiche ricavate dal popolo primigenio della regione, i Neanderthal; Miloš è anche in grado di ‘precipitare’ fino nel profondo della memoria collettiva condivisa e, conoscendo Rosa su una spiaggia californiana, la fa partecipe di quell’avventura che sarà l’argomento della sua vita. Poi il ticinese di origine Peter Andina, losannese esperto di linguaggi che parte per l’Australia onde conoscere il linguaggio che lega gli aborigeni alla loro terra e per comprendere come mai il suo nonno Pietro Andina fosse riuscito a comprendere la ‘lingua’ degli uccelli canterini dopo essere emigrato in Australia. Il curatore del museo ‘Paul Getty’ di Los Angeles e marito di Rosa Rogers, il russo Anatolij Blohin. Tihomir Veljačić, direttore del museo antropologico di Zagabria e amante della sfuggente Nada, una donna dalle malcelate caratteristiche neandertaliane. Lo storico e mercante d’arte losannese Carlo Frutiger. Il boliviano Carlos Pacheco che, assieme a Rosa e Miloš, fonda una prima società della mente sulla spiaggia angelina di Venice Beach. Il cestista zaratino Branko Skroče, dalle lunghe pelose braccia, detto l’uomo-scimmia. Frank Tipler e John Barrow, alias Odisseo ed Ermete, che scrivono il loro ‘Principio antropico’ ad Antella, sulle colline sopra Firenze. Lo ‘scienziato pazzo’ John Von Neumann, inventore dell’omonima macchina in grado di autoduplicarsi e di portare l’intelligenza umana nello spazio eccetera eccetera. Alla fine del romanzo, dopo varie scoperte, ricerche, ragionamenti e viaggi, Carlos Pacheco e Miloš Ostojić riusciranno a far lanciare nello spazio un razzo contenente l’anima del poeta John Keats; al di là del tempo e dello spazio essa sbarcherà su un nuovo pianeta onde iniziare un altro cammino di trasformazione della materia in idea”.

In quale misura e per quali vie il suo romanzo dipende dalla filosofia platonica?

Devo molto allo studio di Platone. Quando lo approfondii per la prima volta, trentacinque anni fa all’università di Zagabria, ne avvertii il proposito grandioso: il concetto, l’idea di un essere o di una cosa era superiore e precedente a ogni singolo oggetto o essere vivente. Era, in qualche modo, la matrice di quell’oggetto e di quell’essere singolo, la categoria che accomuna, la definizione di una forma condivisa. Che cosa intendiamo per ‘albero’? Non ce n’è nemmeno uno, in tutte le nostre foreste, che sia davvero e solo ‘albero’: esso è infatti o faggio o quercia o frassino. Eppure, ognuna di queste piante è anche ‘albero’, partecipa alla forma condivisa che racchiude tutte le piante del genere. Ecco, se applichiamo questa regola a tutti i pensieri, gli esseri e le cose, ci ritroviamo nell’universo platonico delle idee. Il filosofo greco affermò che l’anima di noi, mortali imperfetti, potesse attingere per un attimo al perfetto mondo delle idee precipitando dall’iperuranio, un ‘cielo filosofico’ sede dell’idealità non raggiungibile dagli imperfetti sensi umani. Nel romanzo, per spiegare meglio Platone e il suo universo ideale, propongo che il filosofo sia il punto cardine di ogni pensiero e ogni azione umana; punto cardine che immagina e sogna ‘furiosamente’ nel suo letto di Atene persino i riflessi delle lingue di fuoco che guizzano nella caverna dove Argentea ha accudito migliaia di anni prima l’artista della tribù degli uomini.

Supponiamo che un lettore non conosca affatto la canzone dei Pink Floyd “Wish you were here”. Che cos’ha di speciale?

’Wish you were here’ è una nenia nostalgica che richiama, nelle intenzioni dei Pink Floyd, la figura assente del loro leader Syd Barrett, ‘bruciato’ dall’LSD e poi uscito progressivamente di senno. Oltre ad essere una nenia, è tuttavia una delle canzoni rock più celebri in assoluto proponendo un mix tra memoria, nostalgia, richiamo e… invito ad ogni anima a condividere la ritmica atmosfera che ci induce a ripensare le cose della nostra e di altre vite. Per me, e questo è anche il proposito del romanzo, ‘Wish you were here’ è il richiamo a tutti gli esseri umani a riunirsi qui, ora, in una società della mente e in una coscienza collettiva.

Nel romanzo di Roic l’Uomo attraversa il Tempo e compie il suo percorso attraverso i secoli. C’è un’idea di “progresso dell’umanità” nel suo libro?

Sì, in senso platonico: l’umanità progredirà, magari pianissimo e con ripensamenti e cadute all’indietro, ma progredirà sicuramente contribuendo, quale piattaforma naturale senziente, alla trasformazione della materia in idea. Faccio un solo esempio di questo procedere lento ma sicuro: le unghie che abbiamo alle dita e ai piedi un tempo erano artigli…”.

“Wish you were here” ha una trama? Se non ce l’ha, perché non ce l’ha?

Il romanzo ha varie trame, quante sono le strisce narrative. Le singole trame-strisce narrative, incrociandosi e compenetrandosi, formano la trama complessiva del romanzo che, in buona sostanza, cerca di portare alla luce il pensiero che esiste un essere particolare nell’universo; esso è l’uomo, una parte naturale dell’universo che, tuttavia, a differenza di tutte le altre sue parti è in grado di dare conto dell’universo e di accrescere l’informazione su di esso. In quanto tale, l’uomo è l’accrescitore dell’universo allorché si parla delle idee che ne stanno alla base e delle osservazioni che lo riguardano.

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Quanto è svizzero lo scrittore Sergio Roic? Quanto è croato? Quanto è internazionale?

Mi ritengo svizzero al 100%, e pure croato e serbo (o jugoslavo, anche se quest’entità non esiste più politicamente) al 100% non per un’identificazione etnica o di sangue (sembra che la mia bisnonna Cecilia Tanzi fosse, chi l’avrebbe detto, luganese…) ma per un’adesione chiara e decisa alla società della quale faccio parte. Vivo in Ticino da cinquantun anni e qui ho imparato a scrivere in italiano, la mia lingua letteraria, e mi sono inserito nella società svizzera italiana; alla Croazia, Serbia o Jugoslavia che dir si voglia devo l’altra mia lingua, il serbocroato, a questi territori più che altro mentali devo alcuni vividi ricordi della giovinezza e della vita, narrata, immaginata, romanzata, dei miei genitori. In buona sostanza, la mia identificazione svizzero italiana è civile e cittadina, oltre che poetica (raccomando a tutti di scalare il Passo del Campolungo alla ricerca dei luoghi poetici di Giorgio Orelli); mentre quella jugo-croato-serba è dettata principalmente dalla memoria. In ogni caso, mi sento legato a ogni luogo al mondo che ho visitato o immaginato: mi sento cittadino di Macchu Picchu e di Perth, di Firenze, Parigi, Big Sur, Zabriskie Point e di Lisbona, Berlino, Tribulation Bay e Atene. Vorrei raggiungere, un giorno, il lago di Kuka Nor, in Cina, descritto magistralmente da Vladimir Nabokov che non lo visitò ma che conobbe con la mente e l’immaginazione le sue gazze blu che si levano in volo al sorgere e al calare del sole.

Mi indichi uno, due, tre scrittori contemporanei vicini al suo stile narrativo e alle sue tematiche.

Mi ispiro senz’altro a Georges Perec e al suo romanzo ‘La vita: istruzioni per l’uso’ che combina, tutti quanti relati a un palazzo parigino, 99 racconti che talvolta si intersecano. Mi ispiro pure a Julio Cortazar e al suo ‘Gioco del mondo’, un romanzo che si può leggere ‘dall’inizio alla fine’ o secondo una chiave proposta dallo scrittore: quale sorpresa nel ritrovarsi in presenza di due storie diverse. Delle tematiche filosofeggianti, specie sull’inconoscibilità, possono essere ritrovate anche in un classico della fantascienza come ‘Solaris’ di Stanislaw Lem. Questo tipo di tematiche sono poi il perno di tutta l’opera narrativa di Jorge Luis Borges. Ad ogni modo, è consolante notare che anche l’ultimo grande romanzo di Paul Auster, appena uscito in traduzione italiana, si faccia forte di una struttura ellittica ed intrecciata che mette assieme quattro diverse ‘storie possibili’”.

Lei è uomo di profonde convinzioni socialiste. In quale misura il suo libro riflette la sua idea politica?

Non la riflette affatto. Non si scrivono romanzi per far passare idee politiche. Magari ci provò, nell’ottocento, Cernysevskij con ‘Che fare?’. Semmai, il romanzo presenta un’idea di progresso dell’umanità, progresso che, tuttavia, non dipende da un’unica idea politica ma da tanti contesti intellettuali e storici. Per dire, i veri ‘rivoluzionari’ greci antichi, Socrate, Platone, Aristotele, erano degli aristocratici… Se l’orizzonte di questo romanzo è l’affermazione dell’idea che in un lontano futuro prevarrà sulla materia, l’orizzonte socialista è un anelito alla giustizia fra gli uomini, si tratta quindi, più che di un’idea filosofica, di un’idea di società.

Ci spieghi come fa un autore a trovare un editore. Servono dei soldi oppure si fa senza spesa?

Un autore trova un editore adatto a ciò che scrive. Come succede in tutti i campi, quando lo scrittore è alle prime armi fa più fatica a trovare l’editore o, più semplicemente, a farsi riconoscere. Io ho avuto la fortuna di essere stato pubblicato per la prima volta venticinque anni fa a Lugano da Giampiero Casagrande, che credeva ai miei racconti, e poi, anni dopo, in Italia dai ‘balcanofili’ di Zandonai. Ora sono approdato all’ottimo editore milanese Mimesis che, nella persona del direttore editoriale, Pierre Dalla Vigna, ha apprezzato il taglio filosofico della storia. Mi permetto di dare un consiglio alle nuove leve: non pubblicate a vostre spese, insistete finché sarete pubblicati da un editore che crede davvero in quello che scrivete.

(Provocazione finale) Lei saprebbe scrivere un romanzo nello stile di Grisham?

Non so se saprei scrivere ‘alla Grisham’, certo, un giorno proverò a cimentarmi con un giallo. Alcuni miei racconti del passato, ad esempio ‘La sindrome di Stendhal’ o ‘Emisfero oscuro’ presenti nel mio primo libro, “Innumerevoli uomini”, sono dei piccoli gialli. Mai dire mai, quindi…

Esclusiva di Ticinolive