« Ho ucciso io Giovanni Falcone. Ma non era la prima volta: avevo già adoperato l’auto bomba per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli uomini della sua scorta. Sono responsabile del sequestro e della morte del piccolo Giuseppe Di Matteo, che aveva tredici anni quando fu rapito e quindici quando fu ammazzato. Ho commesso e ordinato personalmente oltre centocinquanta delitti. Ancora oggi non riesco a ricordare tutti, uno per uno, i nomi di quelli che ho ucciso. Molti più di cento, di sicuro meno di duecento. » (Giovanni Brusca, dichiarazione tratta dal libro Ho ucciso Giovanni Falcone, di Saverio Lodato, Mondadori)

Ore 3.30, reparto detenuti dell’ospedale di Parma. Muore un mostro, dopo cinque giorni di coma. Un mostro che si era infiltrato nei meandri dello Stato, e che dal 1956 aveva iniziato a uccidere e, dal 1963 era entrato nella Mafia di Corleone. Salito ai “vertici” di Cosa Nostra” nel ’69, iniziò a rafforzare la sua fama  sanguinaria facendo fuori prima gli avversari mafiosi, poi i politici che si contrapponevano ai suoi legami, sino alle ritorsioni sui pentiti collaboratori di giustizia, autorizzando i suoi picciotti a far fuori i parenti dei collaboratori con le forze dell’ordine sino anche al 20esimo grado di parentela.

Artefice dell’omicidio del capitano Basile, del tenente colonello Russo, del giudice Scopelliti, del generale Dalla Chiesa, del capo della mobile Giuliano, del professor Giaccone, della strage di Capaci in cui morirono il magistrato Falcone, con la moglie e tre uomini della scorta; dell’omicidio del giudice Terranova, del giudice Ciaccio Montalto, della strage di via d’Amelio in cui morirono il giudice Borsellino e cinque uomini della sua scorta; dell’attentato di Via Georgofili, dell’omicidio del giudice in pensione Giacomelli, del giudice Chinnici, della strage di Pizzolungo in cui morirono una madre e i suoi due figli, per la strage di via Lazio, oltre all’uccisione di parenti di pentiti, tra cui quella che sconvolse l’Italia, l’uccisione del quindicenne Di Matteo, figlio di un pentito, strangolato e sciolto nell’acido. Proprio riguardo a ciò, il padre del bambino ucciso, a giugno scorso aveva detto che il minimo per un mostro quale Totò Riina sarebbe stato morire in carcere.

Così è stato, e alle 3.30 di stanotte, un anno dopo il suo altrettanto mostruoso collaboratore Provenzano, Totò Riina ha lasciato quel mondo che per tutta la vita ha insozzato di sangue. Stupisce come qualcuno (e non sono pochi) avesse ipotizzato di attribuire una “morte dignitosa” a un tale detenuto.

Parma, una Certosa adibita a carcere. Una sezione in cui attendono la morte, vantandosi di tutta la morte spalmata in giro, i detenuti più spaventosi.

Parma, una stazione con un busto commemorativo, da poco inaugurato, al Generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Poiché loro, Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, Di Matteo, sono loro, le vittime, che, con la loro morte, con il loro eroismo (sì, anche in questo secolo si può parlar d’eroi) sconfissero la mafia.