da Opinione liberale, per gentile concessione

L’aumento dei premi di cassa malati era motivo di scontento già un quarto di secolo fa. La Lega, con il consueto misto di buon fiuto e cattiva onestà intellettuale, lanciò l’iniziativa per una cassa cantonale con i premi bloccati per legge. Senza dire che i deficit (ben presto colossali) di una tale cassa li avrebbero dovuti pagare il Cantone e quindi i contribuenti. In piena contraddizione con la contemporanea iniziativa leghista per ridurre le imposte. Quest’ultima fu poi accolta dal popolo; quella per la cassa malati cantonale silenziosamente sparì. La Sinistra ripropone da allora con testarda coerenza, su scala nazionale, la cassa pubblica unica e/o i premi secondo il reddito. In Ticino il totale dei premi è dello stesso ordine di grandezza del totale delle imposte cantonali. Raddoppiarle significherebbe indurre alla fuga la piccola minoranza che già oggi paga gran parte delle imposte, a sollievo di tutti. E indurre al nero i ceti medi produttivi, come in paesi vicini. Perché a questo porta l’illusione di tutto risolvere, non solo i costi della salute, tartassando i ricchi.

Il nuovo presidente di un partito ticinese aveva messo i premi di cassa malati in testa al suo programma: poi più nulla. Ma in fondo meglio il silenzio delle genialate ingannevoli. Come le voci che si alzano ogni tanto per esentare dal pagamento i bambini, o ridurre i premi per i giovani adulti (le famiglie monoparentali, gli invalidi, le vedove, i disoccupati). Senza mai dire che un ribasso per taluni comporta un aumento per tutti gli altri. Il Premio Nobel su questo tema va al presidente dell’ordine dei Medici del Cantone Ticino, serafico nel ripetere che il sistema sanitario svizzero funziona benissimo e il solo problema, evidentemente non suo, è come pagarlo.

Si insiste pure a fini politici nel dare la colpa alle casse malati. Sia i fattori d’incasso (premi e numero di assicurati) sia il fatturato di ospedali, medici, eccetera, pagati dalle casse sono abbastanza controllabili o facilmente stimabili. La differenza, pari al costo di funzionamento delle casse, non supera il 5%, e questa percentuale diminuisce da anni. Se anche ci fosse qualche furto o spreco – spese per l’acquisizione di assicurati (sani) comprese – sarebbero irrilevanti rispetto alla crescita massiccia e continua del consumo di prestazioni sanitarie, che è il solo vero motivo per cui i premi crescono.

L’aumento dei consumi ha in parte ragioni valide, quali l’invecchiamento, nuove diagnosi e terapie più performanti e costose. Ma il sistema induce a consumare senza limiti. Per la salute propria e dei propri familiari siamo disposti (quasi) tutti a (quasi) tutto: anche solo per un tentativo, una probabilità, una speranza. Tanto, oltre le modeste franchigie, qualcun (altro) paga. E chi offre le prestazioni ha interesse a far consumare. Il compianto professor Domenighetti aveva descritto il sistema sanitario svizzero come un supermercato, con rappresentanti dei prodotti ai singoli stand, dove ognuno riempie il carrello a piacimento, tanto all’uscita paghiamo tutti un fisso, col carrello pieno o vuoto. Un fisso che aumenta ogni anno per pagare quanto c’era l’anno prima in tutti i carrelli (questo spiega le riserve delle casse, che pagano l’aumento del fatturato prima che i premi aumentino).

Non mancano studi seri sull’eccesso di consumi, anche e soprattutto in Svizzera: tonnellate di medicinali pagati e non usati; diagnosi e interventi di dubbia utilità (Domenighetti aveva acquisito fama internazionale dimostrando decenni fa, con dati statistici impressionanti, che ai familiari di medici e di avvocati certi interventi erano fatti molto più raramente che al resto della popolazione). Siccome però molti pagano un premio ridotto (sussidiati), molti nulla (beneficiari di prestazioni complementari o assistenziali, morosi) e sempre più persone traggono il loro reddito dalla spesa sanitaria (un ottavo del PIL), è difficile trovare consenso sull’obiettivo di frenare i consumi. E ancor più difficile sul come.

E’ da prevedere che non ci si discosterà radicalmente dall’attuale combinazione tra solidarietà tra sani e malati, da una parte, e concorrenza tra fornitori di prestazioni e tra assicuratori. Si può agire sui consumi per due vie. La prima passa per plafoni ai costi che inducono i fornitori di prestazioni non più al fatturato massimo (poco importa se per guadagnare nel privato o per crescere nel pubblico), ma a identificare le necessità prioritarie. Come fa la polizia per le richieste di protezione o sorveglianza dei cittadini. Il principio è già applicato al numero di letti negli ospedali e si tenta, con tira e molla continui, di applicarlo agli studi medici. Farlo bene però non è facile, e tanti gridano contro il razionamento. La seconda via, compatibile con la prima, mira a selezionare più rigorosamente le prestazioni indispensabili soggette a solidarietà, rafforzando per le altre il principio che chi consuma paga. Un po’ come già avviene per le cure dentarie (ma a sinistra c’è chi vorrebbe cancellare proprio questa eccezione). Lo stile di vita va in ciò considerato: la solidarietà obbligatoria tra fortunati e sfortunati ha una diversa legittimazione etica rispetto a quella tra chi si sforza di evitare costi alla collettività e chi non si sforza. Il fatto poi che la metà dei costi avviene nel corso degli ultimi sei mesi di vita impone una riflessione etica sul diritto a prestazioni che non sono, a rigore, per la salute, ma per rinviare di poco o nulla la morte.

Tutti percorsi in salita. Restano purtroppo più facilmente vendibili le false soluzioni: quelle spacciate dai giocolieri che promettono premi bassi girando le tre palle tra Stato tuttofare, cattivi assicuratori e ricchi che dovrebbero pagare. E continuando come finora? Non si tratta soltanto di sostenibilità economica. Una dilagante cultura del vivere per consumare cure a spese della collettività, a scapito della libertà e del margine d’azione di coloro che si curano per vivere, non può non avere un profondo impatto culturale e sociale. Fino a trasformarsi da sintomo a causa irreversibile di egoismo e di decadenza d’una società.

Mauro dell’Ambrogio