Quest’anno ricorre il 50° anniversario del mitico 1968, l’anno più turbolento, discusso, decisivo del dopoguerra. Il pensiero unico imposto negli ultimi cinque decenni dalle sinistre di governo, ormai le più fedeli ancelle della mafia finanziaria globale , esalta spesso le radiose giornate di mezzo secolo fa, le barricate del Maggio francese, gli scontri di Valle Giulia, il trenta politico all’università, gli esami e l’amore di gruppo. Ancora oggi esso si nutre dei famosi slogan sui quali avrebbe prosperato, poco dopo, il terrorismo anarchico e brigatista. Fascisti, borghesi, ancora pochi mesi; Fascisti, carogne , tornate nelle fogne , sono locuzioni che piacciono molto agli attuali frequentatori dei salotti radical chic . Pochi ricordano, invece, che nello stesso anno in cui i figli di papà della contestazione ( così definiti da Pier Paolo Pasolini, che proprio fascista non era), aggredivano con pietre e biglie di ferro i veri proletari in divisa, gli appassionati di lirica della Scala, e gli avventori della Bussola, a poche centinaia di chilometri dalle nostre frontiere un piccolo, eroico popolo, quello cecoslovacco, lottava per la propria indipendenza , dignità e libertà. Purtroppo è prevedibile che ben poche celebrazioni saranno dedicate , in Italia, a questo Sessantotto alternativo.

Mi ci proverò io, che quel fenomeno ho conosciuto e analizzato da vicino, per quanto giovane studente, avendo avuto l’onore di stringere amicizia con il rappresentante di una delle più illustri famiglie praghesi, le peripezie del quale, condivise da milioni di suoi connazionali , ho narrato nel romanzo Pravda Vitezi – La verità vince, pubblicato nel 2008 per i tipi di Campanotto di Udine. Da quell’anno fatale, e fin oltre la caduta dell’impero sovietico, ho frequentato assiduamente la capitale boema, formandomi una precisa convinzione su quanto era accaduto e sui successivi sviluppi.

I miei primi ricordi della Primavera risalgono al 3 gennaio 1968, quando partecipai a una commovente cerimonia religiosa , organizzata dalla piccola comunità cecoslovacca di Firenze, nella chiesa di San Paolino, ove si conserva una copia del celebre Bambino Gesù di Praga. Lo scopo era invocare la protezione dell’Altissimo su Alexander Dubcek , che metteva a repentaglio la propria carriera e forse la propria stessa vita nel Comitato Centrale del Partito Comunista che iniziava quel giorno. Il servizio era officiato dal Parroco e da Monsignor Giovanni Bianchi, Vicario della Diocesi e futuro Vescovo di Pescia in Toscana. Rammento come fosse ora la concentrazione dei presenti quando la statuina lignea fu portata in processione, mentre i fedeli intonavano inni in lingua cèca a lei dedicati. L’Onnipotente, quella volta, si lasciò commuovere: due giorni dopo, il quarantasettenne leader slovacco venne acclamato nuovo Segretario Generale.

Tale svolta non giunse peraltro come un fulmine a ciel sereno, ma si preparava da tempo. A differenza di quanto il pensiero marxista prediceva, il più grande cambiamento nella storia della giovane Repubblica cecoslovacca non prese avvio dalla classe operaia, bensì dagli intellettuali. Uno dei primi segnali, che le teste d’uovo del regime non compresero, fu la riabilitazione di Franz Kafka nel 1964, ad opera della prestigiosa Accademia Letteraria presieduta da Eduard Goldstuecker. Il celebre scrittore praghese era diventato un simbolo della guerra fredda: decadente, antirealista, disgregatore, nell’ottica di una società che costruiva il socialismo, ma che il resto del mondo ammirava, interpretando la sua opera come puntuale raffigurazione dell’uomo nel totalitarismo, schiavo di una burocrazia idiota e corrotta. Il suo messaggio , nella psicologia del popolo cèco, oltrepassava di gran lunga tali limiti: uno dei suoi più famosi romanzi, Il Castello, pur nel rigoroso anonimato di luoghi e persone, descriveva perfettamente l’estraniazione e la totale incomunicabilità che si erano create fra il potere politico, rinchiuso nelle possenti mura dei Hradcany, il palazzo che domina la città dall’altro, e la società civile, la quale, pur soffocata dalla sua ombra, si evolveva e progrediva malgrado e contro i signori di quello.

Nello stesso periodo cominciarono ad agitarsi gli studenti della Facoltà di Lettere e Filosofia della gloriosa Università Carlo IV , tra le più antiche d’Europa, che fra il 1963 e il 1964 fondarono un gruppo divenuto famoso come Klizoziv, ovvero la cricca degli elementi d’opposizione. Fase culminante del movimento studentesco fu la Conferenza nazionale da questo organizzata nel dicembre 1965. Jiri Mueller , uno dei capi, rivendicò senza mezzi termini l’indipendenza dell’Unione della Gioventù dal Partito Comunista, fino a proclamare il diritto d’opposizione . Mueller, ovviamente, fu espulso dall’università, ma ciò non segnò la fine del movimento.

La rivolta degli intellettuali divenne irresistibile nel 1967, con il rapido succedersi di una serie di eventi, inconcepibili per qualsiasi paese del socialismo reale. Alla direzione dell’ente televisivo di Stato fu nominato il progressista Jiri Pelikan, dopo il 1968 rifugiatosi in Italia, militante e deputato nel Partito Socialista di Craxi. Egli fece parlare di sé per avere introdotto, nella Cecoslovacchia dello stalinista Novotny , una trasmissione identica alla nostra Tribuna Politica: Il cittadino e il ministro. Ogni settimana un ministro era invitato a rispondere in diretta alle domande dei giornalisti su tutti i problemi del momento, nessuno escluso. Lo stesso mutamento avveniva nel cinema: registi di fama internazionale quali Milos Forman , Ewald Schorm , Jan Kadar e Vera Chytilova riuscivano a produrre pellicole assai critiche verso il sistema , d’indubbio valore artistico. Alcuni di loro vinsero premi ai festival di Cannes e di Locarno. Alla fine di giugno si tenne poi il IV Congresso dell’Unione Scrittori , ove tutti i maggiori intellettuali del paese, Milan Kundera , Ivan Klima, Pavel Kohout , Vaclav Havel , Ludvik Vaculik , tennero discorsi di aperta opposizione . Riportiamo, a titolo d’esempio, alcuni brani dell’applauditissimo intervento di Vaculik, che se fossero meno ottusi e corrotti dovrebbero far tremare gli attuali politici :

“Anche nel nostro paese è stato applicato il criterio di scegliere gli uomini secondo la loro utilità per il regime. La fiducia di questo andava agli obbedienti, a coloro che non creano difficoltà, che non pongono domande. In ogni scelta si preferivano i mediocri, mentre uscivano di scena i personaggi più complessi, quelli dotati di fascino e soprattutto coloro che , per qualità e lavoro, costituivano un muto e non riconoscibile criterio di rispettabilità generale, una misura di moralità pubblica. Dalla vita politica, in particolare, scomparivano le personalità dotate di senso dell’umorismo e capaci di pensare con la propria testa. Hanno perso significato la definizione di ‘politico pensatore’ , le parole ‘rappresentante e difensore’, suona a vuoto la parola ‘movimento’ visto che niente si muove. Sono stati lacerati i tessuti sui quali si fondava la struttura immateriale e la cultura propria di comunità umane come i paesi, le aziende, le officine. I direttori di scuola che elaboravano propri metodi pedagogici sono stati licenziati. Vi sarete accorti che tutti noi, cèchi e slovacchi, abbiamo la tendenza a pensare di essere diretti, sui nostri posti di lavoro, da qualcuno meno capace di noi. E tutti , ovunque ci si incontri, non facciamo che lamentarci”.

Dopo l’avvento di Dubcek vi fu un rapido susseguirsi di novità sensazionali, provvedimenti inusitati per un paese totalitario, il cui modello venne perciò definito socialismo dal volto umano: abolizione della censura e ripristino della libertà di stampa, diritto d’associazione, garanzia di pubblico dibattito a livello degli organi legislativi, facoltà di viaggiare all’estero per ogni cittadino non indagato per reati comuni, indipendenza della magistratura con rigorosa esclusione dei processi a porte chiuse, possibilità anche per i non comunisti di accedere alla vita pubblica e al governo, riaffermazione della libertà religiosa, riabilitazione dei condannati politici. Quanto agli aspetti economici, la Cecoslovacchia avrebbe ricercato lo sviluppo della cooperazione non più soltanto all’interno del blocco orientale ma verso tutto il mondo , senza pregiudizi ideologici o politici. Il ministro dell’economia Ota Sik promise poi incisive riforme di liberalizzazione e autogestione delle imprese. Il governo Cernik fece proprio tale programma varando modifiche a getto continuo, tanto che già a maggio si respirava in tutto il paese un’atmosfera di rinnovata fiducia e ottimismo.

Tali repentini mutamenti, per loro incomprensibili, spaventarono a morte i satrapi del Cremlino, Breznev in testa, che temevano l’effetto domino sugli Stati del cosiddetto impero esterno. Spesso, insieme agli altri membri del Patto di Varsavia, richiamarono all’ordine i dirigenti cecoslovacchi, minacciandoli in vari modi, schierando l’Armata Rossa in Boemia e Moravia con il pretesto di esercitazioni militari.

Ogni volta che i capi dei rispettivi partiti comunisti s’incontravano, sembrava che l’accordo fosse raggiunto e che il pericolo di una invasione si allontanasse. La goccia che fece traboccare il vaso, condannando irrevocabilmente la Primavera di Praga, fu la decisione dei cecoslovacchi di convocare un congresso straordinario del Partito per il 9 settembre, allo scopo di consolidare le conquiste del nuovo corso e conferire loro una legittimazione incontestabile: fra queste , determinante per far muovere i carri armati, fu l’intenzione di tenere, entro la fine dell’anno, elezioni generali con pluralità di liste. Il peraltro prudentissimo Breznev, che per non compromettere la distensione con l’Occidente aveva cercato fino all’ultimo di evitare lo scontro, ritenne a questo punto di doversi muovere. Fino ad allora aveva ingoiato, obtorto collo, tutte le innovazioni di Dubcek, ma sottoporre l’egemonia di un partito comunista di governo al libero giudizio popolare, non lo poteva proprio permettere. Se, come i sondaggi indicavano, esso avesse subito una sonora sconfitta, non soltanto si sarebbe realizzato facilmente il temutissimo effetto domino, ma l’intera impalcatura ideologica marxista, secondo la quale il pluripartitismo è impensabile nelle società senza classi, sarebbe crollata come un mazzo di carte, anticipando di un ventennio gli avvenimenti del 1989.

Jan Palach

La fine della Primavera di Praga, per i giovani della mia generazione, uccise la speranza di vivere in una società ove non soltanto il socialismo, ma anche il capitalismo avrebbe potuto assumere un volto umano. Ludvik Vaculik , nel celebre Manifesto delle Duemila Parole pubblicato dalla rivista Literarni listy il 26 giugno 1968, aveva scritto che “la qualità concreta della futura democrazia di pende da ciò che accadrà alle imprese e nelle imprese. Gli operai, in quanto imprenditori , devono poter intervenire scegliendo gli uomini da eleggere nelle amministrazioni e nei consigli aziendali. Come dipendenti, potranno difendere meglio i propri diritti eleggendo negli organismi sindacali i propri capi naturali, uomini capaci e leali, senza tener conto della tessera di partito”. A lui faceva eco lo stesso Dubcek : “La democrazia non consiste solamente nel diritto e nella possibilità di esprimere le proprie opinioni, ma anche di quello che ci si fa di queste, nel fatto che le persone si sentano corresponsabili, partecipi delle scelte, che sentano di contribuire alle decisioni che vengono prese, alla soluzione di problemi importanti”.

Per una soltanto apparente coincidenza, mentre queste novità maturavano sulle rive della Moldava, su quelle della Senna Charles de Gaulle indiceva il referendum popolare sulla partecipazione, la cui bocciatura gli sarebbe costata la presidenza. All’est come all’ovest il Sessantotto evidenziò questa unanime esigenza di democrazia diretta, in entrambi gli emisferi soffocata dai rispettivi poteri forti. Adesso che l’intero pianeta è sprofondato in una terrificante, definitiva crisi, l’imperativo categorico che si pone a tutti noi è dare compimento a questa.

Carlo Vivaldi-Forti