Riceviamo e volentieri pubblichiamo questo articolo, che non impegna la Redazione.

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Nella seduta del 2 marzo il Consiglio federale ha adottato il messaggio sulla trasposizione della direttiva UE sulle armi, la quale, dopo i recenti attacchi terroristici avvenuti in Europa, mira a inasprire la regolamentazione in materia. In modo particolare, il governo ha voluto limitare la vendita di armi semiautomatiche, in ragione della pericolosità della loro cadenza di fuoco, ai soli tiratori sportivi, collezionisti e musei. Ciononostante, la riforma non rappresenta che un timido passo avanti rispetto alla legislazione vigente, che nel campo si presenta ancora tutt’altro che severa: basti pensare che fino al 2008, non fosse stato per Schengen, per acquistare un fucile era sufficiente un semplice contratto scritto (quindi nessuna autorizzazione). Malgrado le prescrizioni recepite dalla direttiva, molti restano infatti i limiti della gestione della problematica in Svizzera.

Innanzitutto, bisogna premettere che un diritto troppo liberale sulle armi mette in discussione un principio indiscusso quale il monopolio della forza pubblica, vero e proprio pilastro delle democrazie moderne. In altri termini, la concezione secondo cui la coercizione può venire esercitata soltanto dallo Stato nel quadro della legge, escludendo il ricorso privato alle armi per farsi giustizia da soli. Un principio che, purtroppo, fin troppo poco si rintraccia nella legislazione federale. Non a caso, secondo le ultime indagini, si stima che in Svizzera ben una persona su otto possieda un’arma da fuoco. Di quelle in circolazione (oltre due milioni), sarebbero tuttavia soltanto la metà a figurare nei registri ufficiali: i conti, insomma, non tornano. A fronte dei fatti, le autorità non sembrano perciò disporre dei mezzi adeguati per arginare il proliferare di armi da fuoco.

In questo contesto, per troppo tempo il controllo si è svolto in modo tendenzialmente frammentato. Il tutto si è infatti voluto lasciare ai cantoni, impedendo una necessaria centralizzazione della raccolta dati. Malgrado la recente introduzione di una piattaforma intercantonale, l’esigenza di creare un registro nazionale delle armi, anche per favorire il lavoro della polizia, mantiene perciò tutta la sua attualità. Ciononostante, per risalire a quelle clandestine, occorre prevedere l’obbligo per i privati di annunciare a posteriori i dispositivi non ancora registrati, come già chiesto a livello parlamentare. Così facendo, non ci si illude che a emergere saranno le armi in mano alla criminalità, ma almeno una buona parte di quel milione tuttora ignoto ai registri pubblici. Non si tratta di una mancanza di fiducia verso il cittadino, quanto piuttosto di un dovere per lo Stato di fare tutto il possibile affinché il fenomeno delle armi da fuoco, data la sua potenziale pericolosità, sia conosciuto nella sua reale entità.

Al problema dell’abuso delle armi da fuoco, contribuisce anche un regime di autorizzazione poco uniforme e restrittivo. Se da una parte ai cantoni viene dato ampio spazio di manovra nel rilascio delle stesse, favorendo una contestabile disparità di trattamento; dall’altra, le condizioni per ottenerle sono a mio avviso troppo permissive. Rispetto ad altri paesi, le esigenze poste sono spesso irrisorie, formali e inadeguate a garantire un possesso veramente giustificato di un mezzo potenzialmente letale. Per questa ragione, le autorizzazioni dovrebbero sottostare a condizioni più severe, e soprattutto alla cosiddetta ‘‘prova della necessità’’: per disporre di un’arma da fuoco, andrebbe così dimostrato di averne bisogno per scopi particolari, come già avviene per il porto d’armi. In quest’ottica, mal si comprende l’ostinazione a volere mantenere la possibilità per i militi di portare un fucile d’assalto nelle rispettive abitazioni. In modo particolare se quest’ultima, oltre a creare rischi inutili, non viene motivata neanche da una concreta strategia militare (che poteva magari sussistere negli anni della Guerra Fredda). La soppressione di un tale fattore di rischio, tanto inutile quanto evitabile, dovrebbe rientrare pertanto nelle necessarie misure da adottare.

Inutile ribadire che i limiti dell’attuale legislazione, non volendo combattere il proliferare delle armi da fuoco, si ripercuotono anche sull’ordine pubblico e sulla sicurezza. Diversi dei reati consumati, ormai, vedono queste armi come strumento indispensabile per essere perpetrati. Basti pensare al fatto, ad esempio, che ogni anno sono circa 300 le persone che muoiono a causa della sola arma d’ordinanza. Il problema non è però circoscritto e si estende anche a molti casi di violenza domestica, dove le armi da fuoco sono spesso impiegate come mezzo di minaccia. Non a caso, è lo stesso CF a presumere una diminuzione di questi episodi, qualora venisse limitata la detenzione abusiva di tali armi. Non da ultimo, viene ormai riconosciuto che il tasso di suicidi, benché determinato soprattutto da condizioni sociali precarie, è strettamente collegato alla disponibilità di un’arma da fuoco. Le modalità per compiere questi atti non sono infatti interscambiabili, motivo per cui una riduzione delle armi in circolazione permetterebbe anche di prevenire simili tragedie (e i casi, isolati ma drammatici, di pluriomicidio con suicidio).

Per contrastare il proliferare delle armi da fuoco e il loro impiego abusivo, una soluzione non può che passare da una maggiore regolamentazione della materia. Se, almeno in parte, la direttiva UE consente di fare un passo avanti, bisogna tuttavia riconoscere che la strada è ancora lunga. E’ in questo senso che, finalmente, si rende necessario istituire un registro nazionale delle armi, una prova di necessità per le autorizzazioni, così come l’obbligo di depositare il fucile d’ordinanza e di annunciare le armi tuttora non dichiarate. Certo è che, se per fare progredire la legislazione sulle armi, bisognerà sempre attendere un’indigesta imposizione europea, i presupposti non sembrano essere incoraggianti.

Edoardo Cappelletti, membro di Direzione del Partito Comunista