“Votare no alla sperimentazione non significa buttare tutto nel cestino”

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Manca un mese e mezzo al voto. Non è molto e – anche se la piena estate non è la stagione più adatta al dibattito – è bene darsi da fare (e non si creda che il “popolo del web” non legga). 

Il professor Gerardo Rigozzi in questa battaglia scolastica, concettuale e politica è una delle figure centrali. Egli ha maturato un convincimento preciso e nella sua presa di posizione lucida e stringente si attiene alla critica del progetto di Bertoli. Non divaga, non fa gossip, non elabora ipotesi.

In origine si era pensato a un intervento in forma di intervista, poi si è concluso che una forma espositiva fosse più adatta.

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Di particolare interesse e da leggere attentamente è la critica che Rigozzi muove al suo (le virgolette non servono) partito. Io stesso giudico la linea (meglio. il comportamento concreto) scelta dal PLRT, se non incomprensibile, quanto meno errata. Mi sono permesso di dire al presidente: “La vostra migliore speranza è che Bertoli perda“. A lui probabilmente la mia opinione non interessa.

Cruciale è la frase di Gerardo che ho scelto per fare il titolo. La approvo al 100%.

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A cura di Francesco De Maria. La parola è a Gerardo Rigozzi.

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LaScuola che verrà”  è una “riforma ideologica”?

Non dobbiamo dare necessariamente una connotazione negativa all’ideologia, purché essa non sia settaria e assolutista. La riforma proposta da un DECS a tinte rosse è logico che abbia un orientamento ideologico conforme ai principi del socialismo, vale a dire che sia improntata ai valori di uguaglianza e di inclusione (tenere insieme gli allievi), al fine di evitare qualsivoglia meritocrazia, giudicata da sempre discriminante ed elitaria.

E il modello proposto è perfettamente coerente: bisogna evitare ad ogni costo la creazione di classi omogenee per capacità e interessi, perché ciò arrischia di discriminare gli allievi meno “bravi”.  Un assunto, questo, più volte ribadito nel documento, nella ferma volontà di evitare qualsiasi differenziazione di obiettivi e di modalità di organizzazione dei curricoli per non “lasciare nessuno indietro”.

Dobbiamo lasciare che il PS “si modelli la sua scuola” ?

Direi di no, non per il fatto che siamo confrontati con “una puntata dell’eterno confronto destra/sinistra”, ma per il fatto che la scuola è una realtà che esige un vasto consenso nella popolazione e, di riflesso, negli apparati istituzionali. L’errore commesso dal direttore del DECS non è quello di non aver mai voluto sentire la mia opinione (che vale quello che vale), ma di aver gestito l’intera questione prevalentemente da un punto di vista particolare e soprattutto teorico. Mi stupisce che un politico pragmatico e avveduto come lui si sia fatto irretire da teorie pedagogiche, che hanno fatto il loro tempo in varie nazioni e nei Cantoni svizzeri.

La filosofia dipartimentale sulla scuola è chiaramente definita nel seguente passo del Documento:

“La scuola ticinese adotta un modello nel quale tutti frequentano le stesse classi e perseguono gli stessi obiettivi formativi attraverso i principi della personalizzazione e della pedagogia differenziata. Se, nonostante questi sforzi, un allievo molto debole non dovesse riuscire a raggiungere gli obiettivi minimi, è possibile prevedere un adattamento di questi ultimi, e quindi anche un adattamento delle modalità di valutazione”. (pag. 36).

Ciò significa: adattamento verso il basso per tutti? Non invidio i docenti che dovranno seguire questa filosofia!

Se non si accetta che i ragazzi di undici-dodici anni siano diversi per capacità e interessi, se si impongono percorsi che includono, anziché dischiudere, le varie forme di intelligenza (si pensi ad esempio all’ “intelligenza emotiva”), qualsiasi riforma è destinata al fallimento.

Ben venga quindi la votazione popolare: votare no alla sperimentazione non significa buttare tutto nel cestino, ma approfondire ulteriormente alcune questioni che il documento dipartimentale non affronta in modo convincente; significa riprendere l’intera materia per raggiungere il necessario consenso allargato.

Le questioni da approfondire ulteriormente

L’errore principale del Dipartimento è l’aver concepito la scuola dell’obbligo come una realtà autonoma, a sé stante, indipendente dalle esigenze della società, dalle caratteristiche degli allievi dopo sette anni di scolarità e dai percorsi di formazione successivi: non uno straccio di riflessione su questi punti centrali nell’abbondante documentazione fornita, scritta per di più in linguaggio prevalentemente pedagogico.

Il prof. Zambelloni, su queste colonne, dice correttamente quanto andava fatto prima di avventurarsi in una riforma scolastica così impegnativa: “Ogni adeguamento va progettato e deciso in base al rispetto delle diversità individuali degli allievi, dei cambiamenti sociali, delle esigenze prevedibili della società di domani, dell’evoluzione sociale ed economica della popolazione e del mondo del lavoro”.

Ecco cosa bisogna ancora fare, se la popolazione lo vorrà:

  • studiare attentamente nelle strategie e nei contenuti il ruolo del biennio di orientamento della SM in rapporto alle differenti attitudini degli allievi, alle emergenti caratteristiche della società e ai profili richiesti nelle svariate possibilità di formazione postobbligatoria;
  • verificare con gli addetti ai lavori le articolazioni dei vari momenti della grigia oraria;
  • verificare l’efficacia delle misure proposte in relazione ai costi previsti;
  • avviare finalmente la messa a fuoco dei contenuti imprescindibili della scuola, che nel Piano di studio della scolarità obbligatoria sono assolutamente generici, privi di contenuti ed enfatici sulle competenze che valgono per qualsiasi ordine di scuola (su questo punto, basta leggere il “mea culpa” del pedagogista francese Philipe Meirieu, che ha ispirato a suo tempo la riforma del presidente socialista Jospin);
  • evitare l’imperante moda dello zapping: tronchi comuni, laboratori, ateliers, settimane progetto, corsi sportivi, ecc. Tutto questo porta dispersività e riduzione di ca. 6-7 % di ore annue nelle varie materie: una soluzione che non possiamo permetterci per una scuola di qualità.

La posizione del PLRT

Io non temo affatto di mettermi in contrasto con il “mio” partito. La mia concezione di liberalismo non coincide necessariamente con tutto quello che fa il PLRT, ma questo in un partito pluralista viene accettato senza proscrizioni di sorta. Piuttosto mi preoccupano due cose nel PLRT: è del tutto evidente che alcuni simpatizzanti liberali del DECS abbiano influenzato in zona cesarini la posizione del partito nella ricerca del compromesso granconsigliare, che giudico un errore.

Un cambiamento di rotta, questo, che contraddice manifestamente quanto il PLRT ha scritto nel documento inviato durante la consultazione: “Va ribadito a questo riguardo che la sperimentazione su determinati aspetti di politica scolastica (per es. l’abolizione dei livelli) debba fondarsi su un minimo di consenso politico, per quanto attiene agli obiettivi che si vogliono perseguire”

C’è pure una buona dose di ingenuità nella posizione del PLRT: credere che la soluzione cosiddetta “liberale e alternativa”, votata per la sperimentazione, venga presa sul serio dagli addetti al lavoro e dallo stesso Dipartimento, che neppure la menziona nei documenti inviati alle scuole e nelle prese di posizioni pubbliche dello stesso direttore del DECS e di altri sostenitori, è una pia illusione.

Non solo, ma la variante liberale non è priva di criticità, anche se sottolinea la giusta esigenza di differenziazione curricolare: com’è possibile differenziare le modalità e i contenuti nei laboratori, allorquando gli allievi, al rientro nelle ore comuni della stessa disciplina, si trovano ad avere una preparazione diversa? Come farà il docente a conciliare queste differenze? Da questo punto di vista la soluzione dipartimentale è più coerente perché gioca in continuazione con l’eterogeneità; e l’alternativa doveva essere più incisiva.

Una sperimentazione inutile e inopportuna

La sperimentazione di due alternative contrapposte, di cui una poco approfondita, per di più in sole due scuole, è inutile e persino contraddittoria e confusa. Una sperimentazione del genere servirà unicamente a ribadire il punto di vista dipartimentale della coerenza pedagogica e ideologica (“scuola etica”), ma non affronterà le criticità che la scuola attuale sta vivendo.

Non solo, ma una simile sperimentazione dilaziona i tempi oltre misura: inizio sperimentazione nel settembre 2019; sperimentazione di tre anni (qualcuno dice anche di quattro) fino a giugno 2023; stesura rapporti degli esaminatori per fine 2023; iter parlamentare 2024. Preparazione docenti per l’eventuale generalizzazione 2024-2025. Generalizzazione anno scolastico 2025-2026, quindi fra sette-otto anni, ammesso e concesso che sarà ancora l’attuale capo del DECS a gestire le cose. Tempo sprecato inutilmente!

La pausa di riflessione che spero il cittadino voterà sarà di al massimo due anni e la generalizzazione di cambiamenti sufficientemente condivisi e fondati (quindi non improvvisati) potrà essere attuata per settembre 2020 o 2021. Questa è la via che il Dipartimento dovrebbe prendere seriamente in considerazione, senza imporre le cose dall’alto e far melina affinché si accettino le soluzioni per sfinimento.

Le spese previste

È fuor di dubbio che bisogna investire altre risorse nella scuola. Ma le stesse devono essere utili ed efficaci: i laboratori a classi dimezzate (8-11 allievi per una  spesa di 17,6 milioni) possono essere utili se contribuiscono alla differenziazione dell’offerta pedagogica nei contenuti e nelle modalità; gli ateliers, così come impostati, servono a poco. Per quale ragione vi debbano partecipare gli allievi che non hanno problemi scolastici? Quale funzione ha il docente di sostegno, che dovrebbe svolgere un lavoro individualizzato? Sarebbe molto meglio che si propongano corsi di recupero e di studio assistito per gli allievi con difficoltà, soprattutto nel primo biennio, e che per gli altri si propongano attività alternative e di approfondimento (ma questo ha un sapore “poco etico”).

L’assegnazione quasi automatica di due ore per sezione per lo svolgimento di progetti innovativi e collaborativi, con una spesa annua di 5,8 milioni, arrischia di diventare uno spreco di risorse e un’invenzione di soluzioni distributive fra le materie, anche perché l’autonomia degli istituti è ridotta al minimo (saranno i consulenti didattici a comandare nelle nostre scuole e non i direttori!). Evitiamo gli automatismi per di più costosi!

Perché votare no alla sperimentazione?

Non per affossare l’intero progetto, che pur contiene alcuni aspetti positivi e condivisibili come il rafforzamento del primo biennio della SM; ma per richiedere imperativamente alcuni approfondimenti che finora non sono stati fatti.

La votazione popolare, che lo si voglia o no, si configurerà di fatto come contro o favorevole alla riforma dipartimentale. Non ci vuole molto a capire che un voto popolare a favore della sperimentazione si tradurrà in un avallo del modello dipartimentale. E allora sfido chiunque, PLRT compreso, a voler mettere in dubbio le soluzioni proposte dal progetto “Scuola che verrà”.

Esclusiva di Ticinolive