In questo articolo l’Avvocato tocca uno dei temi da lui prediletti: la BORGHESIA. Alcuni ne parlano con disprezzo, per altri non esiste nemmeno più; ma per l’Avvocato è importante.

Divertente scherzetto, il malizioso plagio.

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La borghesia per prima ha mostrato che cosa possa l’attività umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le Crociate. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l’insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutata conservazione dell’antico modo di produzione. Il continuo mutamento della produzione, l’incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l’incertezza e il mutamento contraddistinguono l’epoca borghese da tutte le precedenti. Tutte le stabili e arrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall’età, si dissolvono e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora e ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci. Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni. Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopoliti la produzione e il consumo di tutti i Paesi. Con grande dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la sua base nazionale. Le antichissime industrie nazionali vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie la cui produzione è questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensì materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel Paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, per soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per esser soddisfatti esigono prodotti dei Paesi e dei climi più lontani. In luogo dell’antico isolamento locale o nazionale, per cui ogni Paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, per cui una universale dipendenza delle nazioni l’una dall’altra. Come nella produzione materiale così nella produzione spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano sempre più impossibili e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale. Con il rapido miglioramento dei sistemi di produzione e con le comunicazioni infinitamente agevolate la borghesia spinge nella civiltà anche le nazioni più barbare. I tenui prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi e con cui costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese. Essa, se non vogliono perire, le costringe a introdurre nei loro Paesi la così detta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa crea un mondo a sua immagine e somiglianza.

Soltanto il capitale crea la società borghese e l’universale appropriazione tanto della natura quanto della coesione sociale stessa da parte dei membri della società. Di qui l’enorme funzione civilizzatrice del capitale; la sua creazione di un livello sociale rispetto a cui tutti quelli precedenti si presentano semplicemente come sviluppi locali dell’umanità e come idolatria della natura. Soltanto con il capitale la natura diventa un puro oggetto per l’uomo, un puro oggetto di utilità. E cessa di essere riconosciuta come forma per sé: e la stessa conoscenza teoretica delle sue leggi autonome si presenta semplicemente come astuzia capace di subordinarla ai bisogni umani sia come oggetto di consumo sia come mezzo di produzione. In virtù di questa sua tendenza, il capitale spinge a superare sia le barriere e i pregiudizi nazionali, sia l’idolatria della natura, la soddisfazione tradizionale, orgogliosamente ristretta entro gli angusti limiti di bisogni esistenti, e la produzione del vecchio modo di vivere. Nei riguardi di tutto questo il capitalismo opera distruttivamente, attua una rivoluzione permanente, abbatte tutti gli ostacoli che frenano lo sviluppo delle forze produttive, la dilatazione dei bisogni, la varietà della produzione e lo sfruttamento e lo scambio delle forze della natura e dello spirito.

Confesso il plagio. Le righe che avete letto sin qui sono di Karl Marx. La prima parte è estratta dal Manifesto del Partito comunista, quella relativa al capitalismo da Grundrisse. La versione italiana l’ho presa dal libro Karl Marx. Vivo o morto? (Milano, Solferino, 2018).

Tanto acuto e possente nella diagnosi, anche se ovviamente datato, Karl Marx è pericoloso e inefficiente nelle terapie, come hanno dimostrato le catastrofi dei suoi discepoli.

Kaspar Villiger, già consigliere federale, ha dedicato, riecheggiando Hayeck, il suo ultimo libro ai socialisti di tutti i partiti. A me basterebbe che le riflessioni di Marx le leggessero i «socialisti» dei partiti a suo tempo chiamati borghesi e che la lettura facesse riflettere i cultori del compromesso continuo, con cedimenti sempre nella stessa direzione, come pure tutti quei politici che in assenza di capacità progettuale si vantano di essere pragmatici.

Tito Tettamanti

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