2018

Intervisto l’Architetto Mario Botta al Rivellino di Arminio Sciolli che il Maestro definisce (scherzando con il padrone di casa) “un mucchio di sassi. Pregiati, ovviamente”. L’occasione è il premio, il Boccalino d’Oro, che il Maestro riceve come Miglior Personaggio del Festival. 

L’Architetto Mario Botta intervistato da Chantal Fantuzzi per Ticinolive

 

La Sua prima costruzione sacra, la Chiesa di Mogno (1986), racchiude ed esprime la religione legando termini sensibili (il moto prospettico espresso, ad esempio, dalla profondità dell’altare), a termini sovrasensibili (il silenzio, la meditazione). Come compendia dunque, nei suoi progetti, le percezioni psicologiche visive e quelle psicofisiche?

L’architettura è la ricerca di un equilibrio spaziale e l’organizzazione dello spazio è il compito dell’architetto. Organizzando lo spazio c’è una componente visiva, fisica e d’immagine, e però naturalmente anche un servizio funzionale tecnico, distributivo, psicologico. L’architettura è anche quello.

La Chiesa al Monte Tamaro, (inaugurata il giorno del patrono della Svizzera, 25 settembre 1996), con la sua subitanea visione di fortezza imponente, domina la montagna, sino a fondersi in essa, divenendone parte. Come trova l’equilibrio tra architettura e natura?  

È un rapporto dialettico, di confronto. Io credo che l’architettura sia sempre un elemento di artificio e quindi tratto dalla geometria, dalla razionalità, dall’elemento tecnico di pensiero, mentre la natura ha invece una sua componente organica, un suo preciso equilibrio che ha un altro aspetto rispetto quello ricercato, più razionale della cultura dell’uomo.

Il valore della città europea è la sua stratificazione. Amiamo Venezia perché in essa leggiamo noi stessi, le lotte e le contraddizioni dell’uomo occidentale. Così come oggi il moderno può, deve contrastare. La schematica geometria del modrno è molto variegata. Non bisogna mai generalizzare, nel moderno c’è Le Courbusier, Viollet-le-Duc… Ed il contrasto è sempre sano. 

                                                            – Arch. Mario Botta

Lei è un eccelso e noto autore di opere religiose, come può a parer suo, la pietra trasmettere l’anima?

La pietra ovviamente da sola non può trasmettere l’anima ma può favorire taluni atteggiamenti di socializzazione, di predisposizione all’altro e ad andare oltre, verso l’infinito. L’architettura di per sé non è che sia una ricetta per andare nel regno della spiritualità, però può offrire degli spazi che predispongono al silenzio, alla meditazione, alla preghiera.

L’architettura è inclusiva ed estendibile a tutti (i fedeli, in questo caso) oppure ogni opera ha un procedimento filosofico e religioso a se stante?

Ogni componente religiosa ha una sua storia, una sua memoria, che è anche un territorio segreto al quale attinge l’architettura. L’architettura non rappresenta solo la funzione: noi non possiamo fare una chiesa nel xx secolo senza tener conto dei duemila anni di storia che hanno modellato la nostra sensibilità, il nostro atteggiamento. Ecco che, allora, le differenti religioni, anche nell’ambito monoteistico, assumono ognuna la propria storia, storia che deve recuperare l’attualità, la contemporaneità.

Tema, in un certo caso di conservazione, ma c’è stata anche una Rivoluzione. Lei, che ha aperto il suo studio dopo una carriera molto precoce e sfavillante nel ’69, come ha vissuto il ’68?

Il ’68 è stato nella cultura cristiana occidentale un elemento molto importante che ha connotato la mia generazione e le generazioni future. Io credo che sia stato un atteggiamento importante soprattutto di rottura, ma credo anche che non si sia saputo costruire: per le generazioni successive, quella ricercata società più giusta, sociale e umana, deve ancora essere costruita, all’interno delle contraddizioni che tutti noi viviamo.

Intervista di Chantal Fantuzzi