Inviato da Claudio Martinotti Doria, che la Redazione ringrazia.

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Non volevamo crederci. Il crollo del Ponte Morandi, che noi genovesi, chiamavamo ponte di Brooklyn, è una tragedia sconvolgente, per il suo carico di vittime, dolore e distruzione.

Non volevamo crederci. Il crollo del Ponte Morandi, che noi genovesi, con una punta di provincialismo da colonizzati chiamavamo ponte di Brooklyn, è una tragedia sconvolgente, per il suo carico di vittime, dolore, distruzione e per le conseguenze terribili che si trascineranno per anni. Non è il tempo degli sciacalli, ma dei soccorsi, del cordoglio, dell’aiuto, della collaborazione. Tuttavia, non si può tacere, tenere a freno la collera per un’altra tragedia sinistramente italiana: un’opera di quell’importanza non può crollare dopo soli 50 anni. Per chi scrive c’è un che di personale, quasi di intimo nel dolore di queste ore. Bambini, partecipammo nel 1967 all’inaugurazione del ponte con tutte le scolaresche di Genova. Muniti di bandierina tricolore, appostati di fronte al palco, seguimmo la cerimonia, vedemmo con la meraviglia dell’età il presidente della repubblica Giuseppe Saragat attorniato da uomini in alta uniforme e dall’imponente figura del grande cardinale Siri, storico arcivescovo della città.

Abbiamo percorso migliaia di volte quel ponte lunghissimo, settanta metri sopra la vallata del torrente Polcevera piena di case popolari e capannoni industriali della ex Superba, ogni giorno per decenni lo abbiamo visto e sfiorato andando al lavoro. Non c’è più ed è colpa di qualcuno. Parlano di fulmini, di un intenso nubifragio e di cedimento strutturale. Aspettiamo a tranciare giudizi, ma nel mattino della vigilia di ferragosto pioveva e basta. Nessuna alluvione, dagli anni 70 ne ricordiamo almeno sei, devastanti, nella città di Genova. Non sappiamo quanti fulmini si siano abbattuti in mezzo secolo sul manufatto dell’ingegner Morandi (pochi sapevano che a lui fosse intitolata l’opera), né quanta pioggia abbia bagnato da allora le imponenti strutture. Non accettiamo, non riconosceremo mai come valida la sbrigativa giustificazione di queste ore. Sarà qualunquismo da Bar Sport, ma ci risulta che ponti romani siano in piedi da due millenni, e non crediamo nell’incapacità dei progettisti. Però, negli ultimi decenni i crolli sono stati tantissimi, come le tragedie dovute all’incuria, all’insipienza, alla corruzione diffusa.

Il ponte, con la strada sopraelevata che corre a mare nella zona centrale della città, è l’ultima grande opera di una ex grande città. Nel 1967, Genova era un polo industriale con centinaia di fabbriche, importanti compagnie navali (l’armatore Angelo Costa fu per decenni presidente di Confindustria) la sede europea di multinazionali come Shell, Mobil, Esso, i cantieri navali, il gruppo Ansaldo, il porto più importante del Mediterraneo. Dopo la strada “camionale” del 1935 verso l’appennino, per realizzare la quale con sbocco sul porto fu spianata la montagna di San Benigno che divideva Genova dal suo ponente, il ponte rappresentava l’infrastruttura base per collegare finalmente la Liguria e l’Italia con la Francia. Mezzo secolo dopo, non abbiamo quasi più industrie, Genova ha perso un quarto dei suoi abitanti, è unita al Norditalia, pardon divisa dall’area più produttiva del paese dalla stessa strada degli anni 30, mentre la ferrovia per la Francia ha ancora un lungo tratto a binario unico. Identica sorte per i collegamenti tra i porti di Savona e La Spezia e l’entroterra.

Da oggi, dobbiamo sopportare anche la tragedia del crollo della più importante infrastruttura in esercizio, piangere decine di morti e accettare la spiegazione che trattasi di tragica fatalità, pioggia, fulmini e saette. Non ci crediamo perché abbiamo visto all’opera la classe dirigente che ha trasformato in una quarantina d’anni una metropoli in un cimitero. Clientelismo sfacciato, una politica da curatori fallimentari o da necrofori, la grande bruttezza che ha sfigurato il mare e la collina, interi quartieri indegni di una nazione civile, il Diamante, le Lavatrici, il Cep, lo stesso Biscione, parte di Begato, palazzi costruiti esattamente sull’alveo di torrenti pericolosi, con le ricorrenti tragedie di cui siamo stati testimoni.

I genovesi, o quel che ne resta, hanno affidato per decenni città, provincia e regione a una classe politica di livello infimo, che ha trascinato in basso il ceto economico e finanziario. E’ crollata l’industria pubblica, la vecchia Cassa di Risparmio, ora Carige, tanto importante da detenere il 4 per cento di Bankitalia, è nella bufera da anni per affari vergognosi, deficit mostruosi e dirigenti condannati in sede penale. La vecchia Italsider, ora Ilva, in gran parte è stata smantellata e quel che resta è sotto minaccia di chiusura. Al suo posto abbiamo una strada a scorrimento (relativamente) veloce, un piccolo sollievo ora che non c’è più il ponte. Il cosiddetto Terzo Valico, ovvero la linea veloce per Milano, in ritardo di almeno 30 anni, va avanti piano, tra polemiche e denari che vanno e vengono. La multinazionale Ericsson ha suonato la ritirata, distruggendo le speranze di un’ “industria pensante” che a Nizza, 190 chilometri da qui, è realtà da decenni ( Sophie Antipolis).

Madamina, il catalogo è questo. Su tutto ciò si abbatte un evento funesto e terribile come il crollo del nostro ponte di Brooklyn. L’autostrada che porta alle luci di Sanremo e all’inferno migrante di Ventimiglia era considerata la più cara d’Italia. Un dubbio privilegio. Ma dov’erano i politici liguri il cui compito era imporre la manutenzione, sorvegliare le infrastrutture di una terra che vive essenzialmente di due attività, il turismo e i trasporti? Abbiamo quattro porti mercantili, raggiungere i quali sino a oggi era difficile, adesso è un’impresa da premio Nobel; alcune delle nostre località sono mete turistiche internazionali, Portofino, le Cinqueterre, Alassio, la Riviera dei Fiori. Ma, dicono le autorità preposte, è bastato un fulmine durante un temporale estivo ad abbattere per duecento metri, esattamente al centro, un ponte costruito decenni dopo il vero ponte di Brooklyn e molti secoli dopo la Lanterna, che guarda dall’alto, illumina le vergogne e ne ha viste tante.

Una tragedia italiana, metafora e paradigma di una decadenza iniziata giusto pochi anni dopo la trionfale inaugurazione del ponte. Una città, Genova, che ha anticipato storicamente eventi di portata nazionale. I primi a volere l’unificazione della Patria, i primi nell’industria e nel commercio, ma poi i pionieri della denatalità, del degrado dei centri storici (con Genova, Ventimiglia), della deindustrializzazione, i settentrionali assistiti quasi quanto certe aree del Sud, l’arretratezza delle infrastrutture, i giovani che scappano. Fummo anche tra i primi ad affidarci politicamente alla sinistra, quando ancora le cose andavano bene. Si trattava di una sinistra in gran parte comunista, astiosa, dogmatica, chiusa, testarda. Nessun paragone con le classi dirigenti delle tradizionali regioni rosse, più pragmatiche dei plumbei apparatchik liguri.

Hanno regnato su un giardino e lo hanno trasformato in cimitero. Non diciamo e non pensiamo che buttino giù i ponti, ma sta di fatto che le pochissime opere realizzate nell’ultimo mezzo secolo sono le bonifiche delle aree industriali dismesse, al posto delle quali sono sorti poli commerciali legati ai soliti noti (Coop e affini) e varie colate di cemento per erigere imponenti centri direzionali in buona parte deserti, poiché c’è davvero poco da dirigere, da queste parti.  Le opere del passato sono obsolete, come l’invecchiata camionale e la ferrovia, l’autostrada che sbocca in porto è un budello pericoloso con code quotidiane di mezzi pesanti, accedere all’aeroporto è impresa acrobatica, nonostante la vicinanza alla città e la possibilità di costruire una bretella ferroviaria di un chilometro o poco più. Della metropolitana genovese il tacere è bello, poiché non solo è tra le più corte dell’universo, ma le sue stazioni sono soggette a frequenti allagamenti. Il ponte che univa le due parti della Liguria da oggi non c’è più.

Viene il magone al pensiero di ciò che era, visto e vissuto con i nostri occhi, e ciò che è, ma ancor più fa tremare la certezza che da molte parti d’Italia altri possano descrivere situazioni analoghe o peggiori. Per questo fa tanto soffrire la tragedia del Ponte Morandi, orgoglioso simbolo caduto della nostra infanzia. Oltre il lutto di tante famiglie, è il segnale, un altro, di una nazione che, lei sì, è ormai preda del cedimento strutturale. Se anche fosse vero che un manufatto di migliaia di tonnellate è crollato per un fulmine e un po’ d’acqua, disgraziato davvero il paese dove accadono, giorno dopo giorno, da Nord a Sud, eventi di questo tipo.

La tragedia è del 14 agosto. Mezza Italia è chiusa per ferie, l’altra metà implode, si accartoccia su se stessa: cedimento strutturale. Insieme, dichiarano fallimento; bancarotta fraudolenta.

Roberto Pecchioli