Percy Shelley era vegetariano. Aspirava agli ideali pre rivoluzionari (prima che la Rivoluzione Francese degenerasse i un bagno di sangue, s’intende) e si auspicava che una simile rivoluzione sociale accadesse in Inghilterra. Ebbene, non una menzione, non un accenno di tutto ciò.

Al contrario dell’ateismo. Quello sì, va di moda. Talmente di moda che vediamo il Poeta inglese sedersi blasfemo su di un altare e bere nel calice consacrato, così per fare il millantatore al cospetto della giovane Mary, che lo osserva, sorridente. Questa, interpretata dalla ventenne Elle Fanning, è in uno stato recitativo pietoso. Tutto quel che sa fare è socchiudere gli occhi inespressivi, o spalancarli.

La trama, è salvabile: Percy (Douglas Booth) fugge con Mary, figlia del libraio presso il quale il giovane poeta lavora, e la di lei sorella, Claire (Bel Powely, questa, prima una ridente suorina poi una mangiauomini procace, sedotta e abbandonata.) Incontrano Lord Byron (Tom Sturridge, un nerboruto, a differenza della tradizione, che ce lo tramanda diafano e romantico, vizioso e alcolizzato), con questi e con il dottor Polidori (autore, nella storia, de Il vampiro romanzo gotico), passano il tempo a inventare storie in Svizzera (luogo da intuire, per il povero spettatore: il passaggio da Londra a Ginevra, non viene nemmeno lontanamente mostrato.) Claire concepisce una figlia da Byron, che tuttavia non varrà il matrimonio tra i due. Mary, nel frattempo, scrive il suo capolavoro, Frankeistein.  Da lì avvierà la battaglia per il riconoscimento della paternità dell’opera, che da molti è, all’epoca, invece attribuita al di lei compagno, Percy.

I dialoghi sono pietosi: per due volte, alla morte della figlia, Percy ripete a Mary “manca anche a me, cosa credi?” senza innovazione, variante alcuna; quando Claire canta (una canzone per nulla ottocentesca, senza un messaggio preciso), dice “io canterò, ma se sbaglierò non sarà colpa mia!” (e di chi, allora?). Elle Fanning scrive, scrive senza entusiasmo, con lo sguardo vacuo, sognante appena.

Insomma, ci si aspettava di meglio, lungi da blasfemia e omissioni.

Poteva esser meglio. Una scena del film Mary Shelley – un amore immortale