(dal “Paese”, editoriale)

Nata verso la metà degli anni sessanta negli Stati uniti, fu soprattutto in Europa che la rivolta studentesca-operaia pseudo intellettuale raggiunse il suo apice nel 1968. E anche noi, nel nostro piccolo Ticino, non ne restammo immuni. Già in molti genitori di allora si stava facendo strada l’eccessivo permissivismo nei confronti dei figli, vuoi per evitare l’impegno di una funzione, quella di genitore appunto, di cui non si era all’altezza, vuoi per un legittimo, ancorché controproducente, desiderio che i figli “non passino quello che abbiamo dovuto passare noi”, con riferimento alle difficoltà e alle sofferenze affrontate in un periodo di guerra e di povertà. Controproducente perché, così facendo, si privavano i giovani di quell’insuperabile maestra di vita che è l’esperienza da pagare sulla propria pelle e, di conseguenza, l’acquisizione degli strumenti adatti a superare gli ostacoli. Il risultato fu che anche da noi la rivolta studentesca poté attecchire con risultati funesti sull’istruzione, conseguenze che sta subendo ancora oggi nonostante innumerevoli modifiche apportate nel tempo al sistema scolastico. E non poteva essere che così, visto che i docenti di oggi appartengono più o meno alla seconda generazione (50 anni) di “vittime” del cambiamento sessantottino, perlopiù persone che danno per scontata l’inadeguatezza del vecchio sistema basato sul ginnasio e sulla scuola maggiore, dicendone peste e corna senza peraltro averlo mai vissuto. Da cinquant’anni stiamo assistendo a continue modifiche e adattamenti – dalla scuola media unificata ai livelli A e B, inserimento di nuove, e spesso perlomeno stravaganti, materie d’insegnamento, lamentandoci poi dei livelli e auspicando la loro abolizione quando questi ti toccano da vicino, escludendo quel genio di tuo figlio da una formazione per la quale non è, perlomeno momentaneamente, qualificato.

Quella proposta da Manuele Bertoli non è certamente la prima “sperimentazione”. Dal 1968 sono state innumerevoli le “sperimentazioni”, nessuna delle quali è peraltro riuscita a superare per efficacia il sistema precedente. Quest’ultimo è accusato di essere “nozionistico”, come se alla base di qualsiasi sviluppo teorico o pratico della conoscenza non ci fosse il nozionismo. Provate a sviluppare un’espressione matematica senza sapere – quindi senza averne la nozione – l’ordine delle operazioni aritmetiche. O a formulare una frase corretta senza avere nozione dell’analisi logica e grammaticale. Se, dall’alto della mia ormai veneranda età, confronto ciò che sapevamo noi – usciti dal ginnasio o dalla scuola maggiore, non ha importanza – con il bagaglio culturale di chi esce oggi dalla scuola media (non parlo degli studi medio-superiori e superiori), non posso che constatare un’ignoranza abissale. Poi, quelli di loro che riescono a superare indenni la prima liceo, riescono magari a recuperare il tempo perduto con l’applicazione e lo studio, ma resta il fatto che l’odierna scuola media è ben lungi dal raggiungere il livello di qualità che taluni responsabili tentano pateticamente di contrabbandare nelle loro affermazioni pubbliche.

Dal sessantotto a oggi, la regola è ormai sempre: la scuola deve insegnare quello che vogliono gli studenti, questi devono essere coinvolti nei programmi d’insegnamento, devono andare volentieri a scuola, inoltre non deve esserci alcuna selettività, tutti devono poter accedere a tutto. Mi permetto di contestare tutti questi punti. Primo, se come allievo dell’allora ginnasio avessi potuto scegliere l’insegnamento, sicuramente non avrei optato per la matematica o il tedesco. La mia scelta – errata, ma molto più divertente – sarebbe caduta su ogni tipo di gioco, qualche sport e sull’introduzione al sesso (di tipo rigorosamente eterosessuale) per il quale sì, avrei gradito perfino la sperimentazione, precorrendo Bertoli di oltre mezzo secolo. Lo stesso dicasi per il coinvolgimento nei programmi d’insegnamento. Se a quindici anni non sono in grado di decidere il mio futuro – e su questo spero siamo tutti d’accordo – non vedo perché dovrei influenzare in qualche modo, dall’alto della mia totale ignoranza, l’istruzione che mi deve essere fornita. È semmai l’insegnamento che deve orientare il giovane nella scelta del suo futuro, non viceversa. Terzo, perché mai i giovani dovrebbero andare volentieri a scuola? Se oggi succede, verosimilmente è proprio perché vengono loro insegnate delle cose che loro piacciono. Ma permettetemi di osservare che ciò che piace a un ragazzino fra i 6 e i 15 anni, difficilmente ha a che vedere con le necessità che avrà da adulto. Francamente, io ho sempre odiato andare a scuola proprio perché mi dovevo forzatamente impegnare su cose che mi erano totalmente indifferenti, ma che oggi sono ben felice che mi siano state inculcate. L’eliminazione di qualsiasi selettività, che è il cavallo di battaglia della “Scuola che verrà” di Bertoli –  lui la chiama “inclusione” – è un errore di principio. Essa offre solo due scenari da considerare singolarmente o insieme: o si fa perdere un sacco di tempo (con relativa perdita di motivazione) ai più dotati, obbligandoli a rallentare il loro apprendimento per aspettare gli “inclusi a ogni costo” – con relativo costoso gonfiamento dell’apparato insegnante – oppure si abbassano i paletti per accedere ai livelli successivi, cosa peraltro sperimentata in Francia a livello universitario, con aumento dei laureati ma crollo della loro qualità.

Oggi, le “passerelle” fra tirocinio e studi superiori – delle quali non sono un sostenitore particolarmente entusiasta – permettono già, a condizione di averne le capacità, di continuare la propria formazione fino a raggiungere i livelli più alti. Ma che tutti debbano poter accedere a tutto è una forzatura assurda. Al di là delle ambizioni, spesso più dei genitori che degli studenti, non c’è nulla di vergognoso nello scegliere un mestiere invece di un titolo universitario. Un artigiano è degno del massimo rispetto quanto un medico o un avvocato.

Sarò anche un vecchio reazionario, ma ho quella che purtroppo è ormai un’utopia: sì, se fosse possibile vorrei che si tornasse al magari nozionistico, ma sperimentato, sistema del ginnasio e della scuola maggiore.

Ora, è vero che la scuola necessita di qualche cambiamento ma forse, se non ci fosse stato il ’68, ce ne vorrebbe qualcuno meno. Il guaio è che le modifiche succedutesi negli anni sono state tutte di stampo ideologico, e non da meno è la sperimentazione proposta da Manuele Bertoli. È ora di smetterla e di studiare qualcosa che ponga dei correttivi senza mettere a rischio il futuro di alcune migliaia di potenziali “vittime” qualora la sperimentazione fallisse.

Di ’68 uno basta e avanza. Basta con le sperimentazioni avventate, NO alla “Scuola che verrà”.

Eros N. Mellini