Con la votazione del 25 novembre prossimo sull’iniziativa popolare «Il diritto svizzero anziché giudici stranieri (Iniziativa per l’autodeterminazione)» si confrontano due concezioni della Svizzera.

La struttura istituzionale svizzera, meno semplice di quanto appare a prima vista, è figlia dell’intelligente diffidenza contadina e della pragmaticità della borghesia imprenditoriale, talvolta in utile contrapposizione. Con le epoche i temi cambiano ma il costante confronto e la successiva ricerca di un opportuno equilibrio restano. La nostra unicità risiede nella democrazia (semi)diretta, il popolo ha l’ultima parola, però nell’ambito di una struttura politica nella quale i poteri vengono continuamente bilanciati e talvolta anche le decisioni popolari subiscono edulcorazioni in Parlamento.

Il nostro Governo non è l’espressione di una maggioranza e portatore di conseguenti progetti politici. È un simil Direttorio termidoriano che ha l’incarico di amministrare al meglio i problemi della nazione. Più che dei governanti con l’ambizione di realizzare i propri progetti politici abbiamo dei coscienziosi e perciò rispettabilissimi servitori dello Stato, con limitato potere, pur se assistiti da una burocrazia onesta anche se sempre più invadente. Il Consiglio federale deve continuamente mediare con il Parlamento ma anche con le varie espressioni della società civile. Può succedere che il risultato di questa decantazione, talvolta pluriennale, non venga accettata dal popolo. E diligentemente si ricomincia.

Vi è poi il potere della Costituzione con i suoi articoli. In proposito ho recentemente letto un’interessante sintesi sulla differenza tra la Svizzera e gli altri Paesi. In quest’ultimi i governi cambiano frequentemente e per continue crisi ma la Costituzione resta immutata; da noi la Costituzione cambia spesso con aggiunta di nuovi articoli ma il Governo è sempre quello.

Non avendo in Svizzera un tribunale costituzionale, ecco che il Parlamento talvolta può attenuare la volontà popolare come successo con l’iniziativa delle Alpi e più recentemente a proposito dell’immigrazione di massa. In sintesi: un delicato gioco di equilibri con ampia partecipazione popolare gestito sinora in modo conveniente e accettabile. Negli ultimi decenni l’orientamento delle classi dirigenti si è spostato però sempre più verso l’internazionale anche per il sopravvento di mode e l’acuirsi di sensibilità. La maggior complessità delle materie e la convinzione di necessitare di soluzioni internazionalistiche ha portato la Svizzera a livelli di coinvolgimento sul piano mondiale che rischiano di snaturare il nostro sistema e particolarmente di mortificare le nostre vie decisionali, devolvendole al puro livello governativo o, peggio ancora, a istituzioni o poteri a noi estranei. È un trend con il quale si può essere consenzienti o no, ma indiscutibilmente è un trend che contrasta con il nostro attuale sistema istituzionale e mina fortemente equilibri di non facile comprensione per giudici stranieri, a loro volta espressione di concezioni democratiche rappresentative con un coinvolgimento dei cittadini limitato alla quadriennale espressione elettorale. Ritengo che la democrazia diretta con tutta la struttura istituzionale in cui si articola ci abbia dato una sicurezza ed un equilibrio che hanno permesso alla Svizzera di essere tra i Paesi più solidi e di successo del mondo.

Da qualche anno però vi è in Svizzera una corrente di pensiero, specie tra élite politico-burocratiche e tra gli ambienti intellettuali, che manifesta insofferenza nei confronti del voto popolare, soprattutto quando non corrisponde al volere di chi ha il potere. Temono, così dicono, la dittatura della maggioranza, pericolo esistente in teoria ma mi pare mai riscontrato concretamente nella nostra storia moderna; criticano la devoluzione delle decisioni al popolo che nella sua ignoranza faticherebbe a comprendere le difficoltà delle materie e dei problemi in esame. Ovviamente sanno che, messo in votazione, il loro desiderio di limitare i diritti di partecipazione concessi dalla democrazia diretta ai cittadini non verrebbe mai esaudito. Cercano pertanto di raggiungere il loro scopo per vie traverse vedendo di assoggettarci a giurisdizioni e leggi straniere concepite per realtà divergenti e con sistemi giudiziari con fini e compiti talvolta diversi da quelli dei nostri tribunali.

Vi è chi come me teme questo modo surrettizio di modificare (annacquare) le nostre strutture istituzionali, con il pericolo oltretutto di dover accettare leggi o dichiarazioni spesso spagnoleggianti di poteri internazionali, firmate con molto entusiasmo specie da Paesi noti per non rispettare gli accordi. Oltre a ciò le gabbie dell’uniformità per realtà molto varie valorizzano la tecnocrazia mortificando la democrazia. Non so se tutti gli elettori, anche quelli che votano contro per idiosincrasia nei confronti del partito che appoggia l’iniziativa (pure questa è democrazia), si rendano cosi rendano conto dell’importanza e del significato di questo voto. Inconsciamente con il voto negativo si contribuisce a minare e a indebolire la formula democratica che ci ha dato 170 anni di partecipazione popolare di successo, premessa di quella sicurezza e di quel benessere di cui abbiamo fin qui goduto.

Tito Tettamanti

Articolo pubblicato nel CdT e riproposto con il consenso dell’Autore e della testata