L’articolo, a causa della sua lunghezza, viene pubblicato in due parti.

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L’ 11 novembre scorso ricorreva il centesimo anniversario della fine della prima guerra mondiale e, soprattutto in Francia e in Gran Bretagna, si sono svolte delle manifestazioni in ricordo dell’avvenimento. A Parigi sono giunti molti capi di Stato (fra cui Trump e Putin) per le commemorazioni della guerra, che fu vinta – ricordiamolo – dagli alleati dell’Intesa: Francia, Inghilterra, Italia – entrata in guerra nel maggio 1915 – con l’appoggio decisivo degli Stati Uniti d’America (entrati effettivamente nella guerra all’incirca al momento in cui la Russia era costretta a uscirne – nella primavera 1918 – e a firmare una pace separata con la Germania, la pace di Brest-Litowsck). Nell’estate 1918 gli Alleati dell’Intesa sbaragliarono l’impero ottomano e penetrarono nei Balcani, nei mesi di settembre e ottobre 1918 l’impero austro-ungarico cominciò un processo di disfacimento, a fine ottobre gli Italiani sfondarono il fronte nel Veneto e a inizio novembre le ostilità cessarono sul fronte austro-italiano. Sul fronte occidentale i tedeschi non mostravano invece segni di cedimento evidenti, almeno non di più di quanto ne mostrassero gli anglo-francesi; vi era però una stanchezza generale della guerra e dai due lati le truppe erano stremate. Fino alla primavera precedente vi erano stati ripetutamente dei momenti in cui gli anglo-francesi e i loro alleati sembrarono sul punto di soccombere alla pressione tedesca. Fino al 1917 i soldati francesi e alleati si erano consumati in una eroica e sanguinosa resistenza e nel tentativo di riconquistare i territori francesi che i tedeschi avevano occupato nell’offensiva del 1914; un vero e proprio massacro. Poi nella primavera 1917 l’entrata in guerra degli USA riaccese le speranze in una possibile vittoria, ma tale speranza rimase frustrata per molti mesi: infatti fino alla primavera del 1918 i contingenti di volontari americani che affluirono al fronte furono relativamente ridotti; mentre d’altra parte la pressione tedesca si fece più forte perché la fine di fatto della guerra a Est permise alla Germania (già prima della pace di Brest-Litowsk) di trasferire forze maggiori sul fronte occidentale. Ma le truppe e la popolazione civile erano ormai quasi allo stremo. Alla fine la Germania acconsentì a firmare l’armistizio prevalentemente per motivi di ordine pubblico interno, cioè per evitare il dilagare di scioperi e rivolte comuniste sull’esempio della rivoluzione russa; l’esercito germanico, vincitore sul fronte russo, non fu vinto effettivamente nemmeno sul fronte occidentale. A seguito dell’armistizio esso si ritirò ordinatamente all’interno delle frontiere del Reich, abbandonando i territori francesi e belgi occupati per quasi 4 anni.

Wilson e le ambiguità di una vittoria
L’11 novembre 1918 entrò dunque in vigore l’armistizio sul fronte occidentale. E fu l’inizio di una nuova tappa nella grande «commedia degli equivoci» che ebbe come primo attore Woodrow Wilson, presidente degli Stati Uniti d’America. L’impatto che Wilson ebbe sulla guerra fu sicuramente decisivo, egli fu invece quasi ininfluente per l’assetto della pace successiva. L’entrata in guerra degli USA a favore dell’Intesa fu decisiva per la vittoria anglo-francese, sia da un punto di vista militare che da un punto di vista economico- finanziario; senza gli aiuti americani (forniture d’armi e di viveri, prestiti pubblici e di banche private USA) probabilmente la Gran Bretagna e la Francia sarebbero state costrette a smettere la guerra e a chiedere l’armistizio alla Germania già un anno o due anni prima. Questo aiuto decisivo fu però negli anni successivi anche un grande fardello, nonché un ostacolo a una politica di riconciliazione pacifica con la Germania. L’aiuto non era stato infatti (se non in piccola parte) disinteressato e Francia e Inghilterra dovettero ripagarlo negli anni seguenti. Ma, siccome soprattutto la Francia – prostrata dalla guerra e con una economia semidistrutta – non era assolutamente in grado di restituire i prestiti ricevuti, questo la obbligava a una politica inflessibile e punitiva nei confronti della Germania, con l’obbiettivo di far pagare a quest’ultima i debiti di guerra francesi.

L’inevitabile durezza del «diktat» di Versailles
Quindi la durezza del «diktat» di Versailles e la politica draconiana di esazione dei debiti di guerra condotta nei primi anni ’20 dal governo francese (con l’occupazione militare della Renania per prelevare il controvalore in materie prime: carbone, ecc. a titolo di risarcimento dei danni di guerra), erano in un certo senso delle scelte obbligate. Qualsiasi uomo di Stato francese che fosse stato al governo nel 1919, non avrebbe potuto agire diversamente da come agì Clémenceau. Detto in soldoni: dire al popolo francese che la guerra era stata vinta ma che ciò non di meno essa doveva terminare senza risarcimenti da parte dei tedeschi, sarebbe stata una verità troppo amara in quel momento. Una cosa indicibile dopo tante sofferenze! La gente si sarebbe ribellata! Certo, hanno ragione coloro che dicono che la durezza di Versailles e la richiesta di pesanti risarcimenti alla Germania furono deleteri, perché coltivarono la frustrazione e il revanscismo dei tedeschi. Uno dei primi a criticare tale politica «in tempo reale» (e non con il senno di poi, di cui son piene le fosse) fu l’economista John Maynard Keynes. Keynes fece parte della delegazione britannica che partecipò alla redazione delle condizioni del trattato di pace e alle trattative fra gli Alleati che lo precedettero, quindi conosceva bene il dossier. Egli argomentò da par suo, portando ragionamenti economici e dicendo che tale fardello di riparazioni avrebbe ucciso l’economia tedesca e che ciò non era nell’interesse di nessuno….Egli aveva ragione a tutti gli effetti, e la Storia nel seguito si incaricò di dimostrarlo, ma in pratica la politica da lui preconizzata non era politicamente realizzabile!

Il tragico errore fu compiuto nel 1914
Il fatto è che nel 1914 il Governo francese aveva fatto credere al popolo che la guerra era stata imposta alla Francia dall’aggressività della Germania e che quest’ultima era l’unica responsabile dello scatenamento del conflitto. Conseguentemente poi, nel corso della guerra, per galvanizzare ulteriormente la volontà di combattere contro il nemico, si era detto che l’esistenza stessa della Francia era minacciata, che resistere al barbaro tedesco era questione di vita o di morte e che occorreva fare uno sforzo sovrumano per salvare la patria. Questo sforzo sovrumano fu compiuto dal popolo, fino a un passo da un vero e proprio suicidio collettivo della nazione francese! E così, grazie anche a un po’ di fortuna e all’intervento in guerra prima dell’Italia e poi degli USA, la guerra fu vinta. Arrivati a questo punto, come si sarebbe potuto cambiare narrazione e mettersi a raccontare che no, non era mica vero che la colpa dello scatenamento della guerra fu della sola Germania? E che perciò, essendo la responsabilità della guerra da ripartire, pure gli oneri della stessa andavano ripartiti e ognuno si sarebbe dovuto assumere quelli propri? Le due questioni (la responsabilità della guerra e l’onere delle riparazioni) erano strettamente legate. Tant’è vero che a Versailles ciò venne affermato esplicitamente e perentoriamente: la colpa della guerra era della Germania, perciò la Germania doveva pagare! La tesi opposta avrebbe rappresentato come minimo la perdita della faccia da parte dei principali dirigenti politici francesi (e inglesi), perché avrebbe voluto dire che la guerra sarebbe stata evitabile. E se la si sarebbe potuta evitare, la gente si sarebbe chiesta inevitabilmente: perché non la si evitò? Ad ogni modo, il popolo si batté eroicamente solo perché gli si disse che la guerra l’aveva voluta e scatenata il perfido tedesco, e che il «nostro» governo patriota e pacifista avrebbe preferito e anzi fece di tutto per evitarla. Che era una favola*, naturalmente, ma le favole credute vere hanno una forza dirompente che nemmeno la più inoppugnabile verità talvolta ha. *Non mi dilungo sulle gravi responsabilità del Governo francese – e di quello inglese – nello scoppio della guerra, perché ebbi già modo di scriverne in questa sede tempo fa recensendo due libri («I sonnambuli» di Christopher Clarke e «Il sangue dei morti» di Niall Ferguson) che raccomando alla lettura di tutti gli appassionati di storia.

Una guerra troppo lunga per permettere una riconciliazione immediata
Per rendere possibile un approccio «keynesiano» al dopo-guerra (ovvero: una pace non
punitiva), la guerra sarebbe dovuta durare molto meno, si sarebbe dovuto interromperla molto prima (dopo al massimo 1 anno); dopo più di quattro anni di guerra, le sofferenze e gli strascichi di risentimento e di odio contro il nemico diventano incolmabili. Ma d’altra parte, si sa che una guerra una volta iniziata è difficile da interrompere, perché si instaurano dinamiche psicologiche proprie ai conflitti: per esempio a livello di vertici politici e militari, quando i propri eserciti vanno bene si accantona l’idea della pace perchè si spera che essi riescano a dare la «spallata» decisiva; quando i propri eserciti vanno piuttosto male si è invece più inclini a trattative di pace, ma in quel caso è la controparte che nicchia perchè indulge all’illusione di poter vincere…. Inoltre la dinamica delle coalizioni di vari Stati rendeva molto difficili delle trattative di pace: lo si vide molto bene in occasione delle offerte di pace alla Francia dell’imperatore Carlo d’Austria all’inizio del 1917: il tentativo fallì perchè l’Austria-Ungheria non era in grado di separare le sue sorti da quelle della Germania (i due imperi erano molto imbricati e l’Austria-Ungheria dipendeva troppo dall’alleato tedesco e ne era quasi diventata un vassallo), rispettivamente di convincere l’alleato dell’opportunità di fare la pace. Alternativamente, un approccio riconciliativo con la Germania avrebbe potuto essere praticabile solo con una remissione dei crediti di guerra nei confronti di Francia, Belgio e Gran Bretagna da parte degli USA. Ma questo non era all’ordine del giorno nel 1919 ! Solo nel 1932 si arrivò a tale decisione, che consentì alla Francia e alla Gran Bretagna di rinunciare a loro volta alle ulteriori pretese di riparazioni verso la Germania. Tale decisione arrivò troppo tardi per convincere i tedeschi a perseguire una via democratica e pacifica di collaborazione tra gli Stati. Quando la Repubblica di Weimar era ormai agli sgoccioli, travolta dalla crisi economica del 1929 e dal conseguente marasma politico che portò al potere i nazionalsocialisti.

Peolo Camillo Minotti

Continua. La seconda e ultima parte sarà pubblicata domani.